Io Credo in Dio Padre Onnipotente

Catechesi per gli Adulti dell'Unità Pastorale di San Giovanni in Persiceto
Primo incontro - 25 Novembre 2011

L'11 ottobre 1992 il b. Giovanni Paolo II, con la Costituzione Apostolica Fidei Depositum, promulgava il Catechismo della Chiesa Cattolica di cui il Pontefice f. r. ci ha donato, nel 2005, il Compendio.

Nella bimillenaria storia della Chiesa, solo un altro Vicario di Cristo, precedentemente aveva esercitato il proprio Magistero dotando la chiesa di una sintesi sufficiente e certa del Depositum Fidei in forma di Catechismo: s. Pio V in esecuzione del Concilio di Trento con il suo Catechismo Romano di cui i Catechismi di s. Pio X furono compendio.

Come dopo la tempesta luterana, così al finire del XX sec., il Successore di Pietro giudicò necessario ribadire, con la forza della propria autorità e la chiarezza d'un metodo catechetico, le verità eterne della Fede Cattolica.

Il CCC realizza in sé la ragione per la quale il b. Giovanni XXIII indisse il Concilio Vaticano II: "meglio custodire e presentare il prezioso deposito della dottrina cristiana, per renderlo più accessibile ai fedeli di Cristo e a tutti gli uomini di buona volontà"[1] e, pertanto, può essere definito come una delle eredità più ricche del Concilio.

Se il CCC è frutto prezioso del Concilio Vaticano II, lo è tanto più in quanto, smentendo una errata ermeneutica del Concilio, manifesta, nella immutabilità della Tradizione, la totale identità del soggetto Chiesa e del Depositum Fidei dalla Chiesa custodito prima e dopo il Concilio. In questo il CCC del b. Giovanni Paolo II segue e completa la riaffermazione delle verità della Fede Cattolica fatta dal Servo di Dio Paolo VI con la Solenne Professione di Fede del Popolo di Dio del 1968.

Il CCC, come già il Catechismo Romano che s. Pio V indirizzò ai parroci, è voluto dal Papa come destinato principalmente ai "maestri della fede e pastori della Chiesa" (CCC, 12), ovvero ai Vescovi e "attraverso i vescovi, si rivolge ai redattori dei catechismi, ai presbiteri e ai catechisti" (CCC, 12).

In questo modo il b. Giovanni Paolo II ci dice che la via ordinaria del battezzato per conoscere i contenuti della fede non è la lettura solitaria del CCC, anche se il CCC è "utile lettura anche per tutti […] i fedeli" (CCC, 12). Piuttosto il CCC è strumento pensato per formare nell'ortodossia cattolica quei maestri che nella Chiesa sono chiamati ad annunciare ed insegnare. La fede, ricordiamocelo contro ogni individualismo religioso, è ex auditu, ovvero non trova il proprio contenuto nella lettura personale dei testi, fossero anche il CCC o tanto più la Sacra Scrittura, ma nell'ascolto della voce viva della Chiesa docente, del Papa e dei Vescovi in comunione con lui.

Si comprende così la ragione profonda, tutt'altro che estemporanea, per la quale il Cardinale Arcivescovo ha dato mandato di presentare ordinatamente, lungo un cammino di più anni, il contenuto della Fede Cattolica.

"Custodire il Deposito della Fede è la missione che il Signore ha affidato alla sua Chiesa"[2], custodire e predicare!

Compito dei ministri della Chiesa è annunciare la Verità Cattolica in tutta la sua luminosa integralità avvalendosi di preziosi e sicuri strumenti conoscitivi quali il CCC, così come di ogni altro documento del Magistero.

Durante questo primo anno il Cardinale Arcivescovo ha chiesto di svolgere una puntuale catechesi sulla prima parte del CCC soffermandoci a considerare particolarmente il mistero della Ss.ma Trinità.

Il cammino catechetico che proponiamo si struttura in cinque incontri, ognuno dedicato alla trattazione puntuale di un preciso gruppo di numeri del CCC relativi al primo articolo del Credo.

In questo primo incontro di catechesi riteniamo necessario gettare le basi sulle quali i successivi potranno poi svilupparsi trattando di Dio Padre. Potremmo dire che questo primo momento di riflessione ha un carattere propedeutico, non, però, nel senso di banalmente introduttivo, quanto piuttosto nel senso forte di fondativo.

Per poter parlare di Dio Padre si deve, previamente, aver chiaro il concetto di Dio come l'indubitabilità della Sua esistenza, si deve saper distinguere tra quanto di Dio si può dimostrare con ragione e quanto, invece, come il mistero trinitario, trascende le capacità conoscitive naturali dell'uomo. Si deve aver chiaro il concetto di Rivelazione e di fede teologale, così come elementari nozioni di teologia fondamentale circa la possibilità stessa della Rivelazione.

Tutto ciò non per vana erudizione ma per poter poi poggiare la comprensione del dato rivelato su basi solide che preservino la fede dal fideismo, come da una declinazione del cristianesimo lontana dalla saggezza cattolica che fede e ragione, sa sempre, unisce.

"Dio … vita beata" (CCC, 1).

Con queste luminose parole si apre il CCC così da avvolgere, sin da subito, il lettore nel mistero cristiano che si andrà poi approfondendo passo a passo nelle pagine e nei numeri successivi.

Sono parole sublimi, parole la cui meditazione può dar ragione ad una esistenza! Ma sono anche parole spesso incomprese, spesso contestate o ancor peggio coperte da indifferenza e superficialità. Proprio per questo siamo chiamati a spiegare le verità della fede, difenderle con una sana apologetica e farne gustare la profondità e l'altezza sublimi. In fondo è lo stesso s. Paolo che ci chiede d'esser sempre pronti a dare ragione della speranza che è in noi.

Non sarà, pertanto, ozioso applicare l'intelligenza di cui Dio ci ha dotato al tesoro della Divina Rivelazione. Non già per tentare di dimostrare ciò che si deve credere, quanto piuttosto per capire ciò che si crede e perché si crede!

Credere è sempre un credere qualcosa, non si dà fede senza oggetto, la virtù teologale della fede non è un sentimento religioso, non è un emergere a coscienza di moti interiori, non è un sentire psicologico. La fede teologale è il libero assenso dell'intelletto a tutte e singole verità da Dio rivelate e dalla Chiesa insegnate. E' "adesione personale dell'uomo a Dio" (CCC, 150). Così credere è sempre un atto di intelligenza, un atto personale ed ecclesiale allo stesso tempo, credere è sempre un credere nella Chiesa; io credo ciò che la Chiesa crede, ciò che la Chiesa insegna!

Certo, in quanto virtù teologale, la fede è infusa da Dio, l'uomo non si dà la fede ma la riceve con la grazia di cui la fede è una quasi-facoltà: "E' impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo" (CCC, 154) proprio perché la fede teologale trascende le capacità naturali dell'uomo.

Non si pensi però che la fede non sia anche atto autenticamente umano, libero e responsabile. La grazia, si sa, non distrugge la natura ma la perfeziona così che la virtù infusa della fede non distrugge la natura umana, libera e razionale.

Credere, insegna la Chiesa con s. Tommaso, è un atto dell'intelletto che, sotto la spinta della volontà mossa da Dio per mezzo della grazia, dà il proprio consenso alla verità divina[3].

Se la grazia non distrugge la natura e dunque la fede non cancella la ragione, non solo sarà possibile e lecito ma anche doveroso applicare la ragione alla fede, ai motivi per cui si crede e al contenuto stesso della fede.

"Il motivo di credere non consiste nel fatto che le verità rivelate appaiano come vere e intelligibili alla luce della nostra ragione naturale" (CCC, 156), se così fosse non si darebbe neppure la fede ma solo dimostrazioni razionali, non si avrebbe cioè un contenuto divinamente rivelato ma unicamente verità scoperte dalla riflessione razionale dell'uomo. Noi crediamo, invece, alle Verità Rivelate "per l'autorità di Dio stesso che le rivela, il quale non può né ingannarsi né ingannare"[4] e in ragione di ciò la fede è moralmente certa "più certa di ogni conoscenza umana" (CCC, 157) anche se il suo contenuto non è a noi evidente.

Tuttavia Dio volle che "l'ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione"[5] così che volle dare delle "prove esteriori della sua Rivelazione"[6]: i miracoli di Cristo e dei santi, le profezie, la diffusione e la santità della Chiesa, la sua fecondità e la sua stabilità. Prove esteriori che "sono segni certissimi della divina Rivelazione, adatti ad ogni intelligenza"[7]. Segni sui quali è chiamata ad esercitarsi la ragione umana al fine di riconoscere in essi sicuri motivi di credibilità e quindi la ragionevolezza della fede soprannaturale.

La fede, dunque, se non è razionale ma sovrarazionale, è tuttavia ragionevole!

La fede teologale richiede l'uso della ragione perché l'assenso di fede, pur mosso dalla grazia, deve darsi liberamente da parte dell'intelletto umano con il riconoscimento, da parte della ragione, della ragionevolezza del credere. Il Concilio Vaticano I insegna così, contro ogni sentimentalismo ed ogni fideismo irrazionalista, che l'assenso della fede non è "affatto un cieco moto dello spirito"[8]. L'atto di fede è atto dell'intelletto! Credere è "cum assensione cogitare"[9], un pensare con assenso alla Verità rivelata.

La ragione non è chiamata solo ad esaminare le prove esteriori della Rivelazione, è pure chiamata a interrogare il contenuto stesso della Divina Rivelazione. Infatti la fede è la conoscenza, secondo la modalità umano-discorsiva, di un contenuto divino rivelato. Il contenuto di fede è il medesimo contenuto della visione beatifica ma, a differenza di questa, la conoscenza di fede procede secondo la modalità razionale-discorsiva propria dell'intelletto nell'uomo viatore (l'uomo viatore siamo tutti noi poveri pellegrini in questa vita mortale).

Così il fedele è chiamato ad esercitare la propria ragione, illuminata dalla grazia, penetrando il contenuto rivelato, non per tentarne la dimostrazione (impossibile quanto assurda) ma per cercare il più possibile di comprendere ciò in cui si crede. Ben curiosi e, purtroppo, numerosi i casi di chi dice di credere ma poi non sa bene in cosa crede. Questo non è credere ma credere di credere!

La ragione è pure chiamata a dimostrare quelle verità naturali che costituiscono come la base sulla quale il dato sovrannaturale rivelato si radica. Verità che, per la debolezza dell'intelletto umano a causa del peccato originale, dio provvidenzialmente ha voluto contenute nella Rivelazione stessa "affinché nella presente condizione del genere umano possano essere conosciute da tutti senza difficoltà, con ferma certezza e senza mescolanza d'errore"[10].

Noi conosciamo per fede l'esistenza di Dio, il Suo essere Creatore e il nostro essere (assieme all'universo tutto) creatura, l'Onnipotenza, l'Eternità, la Somma Bontà e Bellezza di Dio, così come il nostro essere, in quanto uomini, unione di anima e corpo, di un'anima di natura spirituale, quindi immortale, e di un corpo di cui l'anima stessa è forma. Per fede conosciamo i Dieci Comandamenti come legge immutabile di giustizia.

Per fede … ma tali verità sono di fede solo quanto al modo della loro conoscenza, non quanto alla sostanza. In sé tali verità sono verità di ragione che l'uomo può raggiungere con le proprie forze naturali, con la propria intelligenza.

E' compito della ragione dimostrare queste verità che sono di ordine naturale, non di fede (quanto alla sostanza) ma preamboli alla fede, preambula fidei!

E' proprio questa capacità razionale dell'uomo di conoscere con certezza l'esistenza di Dio Creatore e le verità religiose e morali relative "partendo dalle cose create"[11] che impone all'uomo il dovere morale di sottrarsi all'ignoranza circa Dio, la propria natura e la legge morale.

"Senza questa capacità l'uomo non potrebbe accogliere la Rivelazione di Dio" (CCC, 36) la quale, pertanto, richiede la ragione, non la nega!

E' dogma di fede proclamato dal Concilio Vaticano I che la ragione umana può, partendo dalla conoscenza delle creature, dimostrare con assoluta certezza l'esistenza di Dio Creatore come "principio e fine di tutte le cose"[12].

Il Concilio Vaticano I ha così insegnato infallibilmente ciò che nella stessa Scrittura è detto (cfr. Sap. 13, 1-9; At. 14, 15-17; Rm 1, 19-20) e che i geni cattolici di ogni epoca hanno filosoficamente provato. Tra tutti il Dottore Comune s. Tommaso d'Aquino che, con rigore razionale, dimostra l'esistenza di Dio, i suoi principali attributi (eternità, immensità, bontà, bellezza, etc.) e il Suo essere Creatore. Dai tempi dell'Angelico Dottore non sono mai mancate nuove penetranti speculazioni sulle prove razionali dell'esistenza di Dio, sino ai nostri giorni dove i due grandi filosofi cattolici del '900 italiano, p. Cornelio Fabro e Gustavo Bontadini, hanno dato il meglio di sé. Il primo rileggendo s. Tommaso come metafisico dell'Essere, il secondo con la sua via brevissima che, mentre dimostra l'esistenza di Dio, dimostra simultaneamente la creaturalità del mondo.

Come si vede la vera fede, quella teologale, la fede cattolica è tutt'altro che nemica della ragione! Non vi è nulla più lontano dalla vera fede che il fideismo!

Sarebbe, invero, ben strano, anzi assurdo se noi cristiani disprezzassimo la logica o la volessimo tener fuori dal nostro credere quando in Gesù Cristo adoriamo proprio il Logos incarnato. Se Cristo è il Logos, i cristiani non potranno non essere logici! Come la Chiesa insegna, è proprio il nostro essere razionali che ci consente di ricevere la Divina Rivelazione, dono che Dio fa gratuitamente alla creatura ragionevole.

Non solo Dio è dimostrato dalla ragione esistente come Creatore Onnipotente e Signore del cosmo ma è lo stesso uomo "con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all'infinito e alla felicità" (CCC, 33) a costituire un vivente anelito a Dio.

Come scrive Pascal nei suoi Pensieri, senza l'orizzonte di Dio, l'uomo è un mostro incomprensibile alla ragione. Un vero mostro in quanto scosso da desideri ("Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell'uomo" CCC, 27) inappagabili nel caso si volesse negare Dio.

Potente è l'immagine che Pascal dà dell'uomo come Re decaduto incomprensibile nel suo essere se gli si nega l'orizzonte del regno perduto; fuor di metafora, se gli si nega l'orizzonte di Dio e della grazia.

Qui Pascal, per altro, pone il tema del peccato originale abbozzandone una rilevazione su basi di ragione naturale. Tema complesso e affascinante se solo si pensi alla specularità di certi versi del pagano Ovidio con il s. Paolo della Lettera ai Romani. A voi giudicare: scrive s. Paolo: "…" (Rm 7, 18-25) quando già Ovidio cantò "Video meliora proboque: deteriora sequor". Sorprendente somiglianza!

"Il mondo e l'uomo attestano che essi non hanno in sé stessi né il loro primo principio né il loro fine ultimo, ma che partecipano all'Essere in sé che non ha né origine né fine" (CCC, 34). Il mondo e l'uomo rimandano necessariamente a Dio come Essere per sé sussistente Creatore e Signore dell'Universo.

Quando però professiamo la nostra fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo o nell'Incarnazione del Verbo, nella Sua Passione, Morte e Resurrezione, queste verità non si collocano sul piano del razionalmente dimostrabile. Qui non abbiamo verità di fede solo quanto al modo e non quanto alla sostanza (come quando diciamo di credere in Dio, Uno, Eterno, Onnipotente, Infinito, Creatore, Signore Provvidente, etc.). Qui abbiamo delle verità di fede quanto alla stessa loro sostanza. Sono, cioè, verità che possiamo solo credere, non dimostrare. Verità che la ragione con le sue forze naturali non può raggiungere.

La ragione, innanzi al mistero della Ss.ma Trinità, come ad ogni altra verità di fede soprannaturale, può solo dimostrare la non contraddittorietà dell'affermazione di fede. E' il compito della teologia fondamentale, disciplina nobilissima a cui si dedicarono i più alti ingegni cattolici come il prof. Ratzinger, ora papa Benedetto XVI, nei suoi anni di insegnamento universitario.

Ad es. rispetto al mistero della Ss.ma Trinità la ragione può solo dimostrare la non assurdità di una unità numerica di sostanza nella trinità delle Persone, ovvero la possibilità logico/metafisica del Dio Uno e Trino. La possibilità … che Dio sia realmente Uno e Trino la ragione non lo può provare! E' di fede!

La ragione poi, ovviamente, una volta dato il contenuto rivelato, si eserciterà nella comprensione dello stesso.

Chiediamoci allora cos'è la conoscenza per fede? Innanzitutto è una conoscenza nel senso più pieno, la fede non è sentimento né una generica fiducia in Dio. La fede, come virtù teologale, è un abito (infuso) dell'intelletto, è propriamente una virtù conoscitiva.

La conoscenza per fede è conoscere Dio come Lui si conosce e come Lui, conoscendosi, conosce ogni cosa.

Con la ragione l'uomo conosce l'esistenza di Dio ma non, propriamente, Dio in quanto Dio, bensì unicamente Dio in quanto relazionato al mondo, in quanto Causa Prima ad es.

Per conoscere Dio in quanto Dio bisognerebbe essere Dio, infatti solo un intelletto infinito può conoscere l'Infinito, solo un intelletto divino può conoscere l'essenza di Dio. Ma noi non siamo Dio! Quindi se Dio non si rivelasse a noi, noi non conosceremmo nulla della sua intimità.

Dio conosce perfettamente Dio, ovvero si conosce perfettamente. Anzi, ci insegna la grande teologia scolastica, in Dio non si dà distinzione reale tra essere e agire, essere e conoscere. Quindi la conoscenza che Dio ha di sé stesso è Dio stesso. Il conoscere di Dio è Dio!

La virtù teologale della fede è propriamente la partecipazione per grazia della scientia Dei (la conoscenza che Dio ha di sé e in sé di tutto) nella creatura ragionevole. Partecipazione assolutamente gratuita!

La conoscenza di fede, dunque, ci fa partecipi della conoscenza che Dio ha di Dio. Con la fede, possiamo dire, conosciamo divinamente Dio. Divinamente quanto alla sostanza, non quanto al modo che è umano (ovvero discorsivo). Ma se la conoscenza che Dio ha di sé è Dio stesso, la partecipazione alla conoscenza che Dio ha di sé si darà con la partecipazione alla vita di Dio che è la grazia, abito entitativo infuso. Ecco perché la fede teologale è quasi-facoltà della grazia!

Nell'uomo viatore la grazia ha come quasi-facoltà conoscitiva la fede, per la quale conosciamo Dio come Dio si conosce ma non direttamente, bensì per speculum et in aenigmate. Nella visione beatifica la fede sarà sostituita dal lumen gloriae per il quale vedremo Dio faccia a faccia (cfr. 1 Cor 13, 12; Ap 22, 4) "così come Egli è" (1 Gv 3, 2).

Cambia il modo di conoscere (per fede, per visione) ma non il "ciò che" si conosce. Il contenuto della fede è il medesimo contenuto della visione beatifica: Dio in quanto Dio, ciò che solo Dio conosce di Dio!

"La fede è una pregustazione della conoscenza che ci renderà beati nella vita futura"[13]. Con la fede, cioè, noi abbiamo un anticipo di visione beatifica, aver fede è già un po' essere in Paradiso!

E' da notare come il Paradiso, la visione beatifica sia una conoscenza, come conoscenza è la fede. La beatitudine è conoscere Dio. Idea ben lontana da ogni sentimentalismo, da ogni volontarismo.

Il contenuto della fede, essendo la partecipazione alla conoscenza che Dio ha di sé stesso, non può essere che rivelato da Dio stesso. Dice il CCC: "Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso" (CCC, 51).

Dio liberamente volle rivelarsi per pura bontà come liberamente e per pura bontà volle creare. Creazione e Rivelazione (ma si potrebbe anche dire che la stessa Creazione è già Rivelazione) sono atti assolutamente liberi e gratuiti compiuti da Dio per pura bontà.

Dio rivelandosi si fa conoscere come Lui solo si conosce!

Il disegno divino della Rivelazione si realizza nel tempo, è evento storico che "comporta una pedagogia divina […] che culmina nella Persona e nella missione del Verbo incarnato, Gesù Cristo" (CCC, 53).

Dio "fin dal principio manifestò se stesso ai Progenitori"[14] e non interruppe questa pedagogia divina neppure dopo il peccato originale.

Dio continuò a rivelarsi dopo la cacciata dall'Eden, parlò ad Abele il giusto, a Noè con il quale stipulò una Alleanza, ebbe per Sacerdote il re Melchisedech figura di Cristo. Dio si rivelò ad Abramo che elesse e da Abramo, Isacco e Giacobbe ha origine il popolo eletto che con Dio concluderà l'Alleanza del Sinai.

In Israele, popolo eletto sotto la Legge data a Mosè, Dio si rivela attraverso i Profeti: "…" (CCC, 64).

Tutta questa lunga storia di Rivelazione, questa millenaria pedagogia è solo preparazione e mezzo ordinato provvidenzialmente al fine dell'Incarnazione. La Rivelazione Divina non è semplicemente la somma di tanti diversi momenti di Rivelazione culminanti con la predicazione di Cristo. Sarebbe negare il cristocentrismo dell'Economia della Salvezza.

N.S.G.C. non è solamente Colui che ha predicato la Buona Novella, Cristo non è il profeta del Vangelo, Cristo è il Verbo incarnato!

Il Verbo, la Parola è, se mi concedete l'espressione ardita, l'eterna Rivelazione che Dio fa di Dio a Dio nel mistero della vita intratrinitaria. In Cristo, dunque, è la Parola eterna che si fa carne!

La pienezza della Rivelazione non è dunque la semplice predicazione storica di Cristo, bensì Cristo stesso "Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre, il quale in Lui dice tutto e non ci sarà altra parola che quella" (CCC, 65).

Il Cristianesimo non è una religione del Libro (cfr. CCC, 108), come pure da molte parti si dice, infatti la Parola si fece carne. La Parola di Dio è la Persona umano-divina di Cristo! Noi adoriamo il Verbo Incarnato, non il verbo stampato. Il Verbo si è fatto carne non carta!

La Rivelazione nella sua pienezza è la Persona di Cristo, non un Libro. Il Cristianesimo è la religione della Parola di Dio "non di una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente" (s. Bernardo).

Si capisce allora perché l'Alleanza stipulata da Cristo sulla Croce sia Eterna, Nuova ed Eterna Alleanza!

In Cristo Dio si è rivelato perfettamente in quanto la Rivelazione, in Lui, è stata lo stesso darsi reale di Dio. Perché Cristo è Dio!

Cristo non si limita a parlare di Dio rivelandocelo, Cristo è lo stesso Dio che si rivela.

Dire che la pienezza della Rivelazione è Cristo e non un Libro, non significa sminuire il valore della S. Scrittura, anzi significa leggere la Scrittura da cristiani per i quali "Tutta la divina Scrittura è un libro solo e quest'unico libro è Cristo; infatti tutta la divina Scrittura parla di Cristo e in Lui trova compimento"[15].

E per ordine di Cristo la Chiesa predica le verità della Divina Rivelazione a tutto l'ecumene.

Come abbiamo detto, la conoscenza che Dio ha di sé stesso e a cui l'uomo viatore, per fede, partecipa ha come contenuto le stesse verità da Dio storicamente rivelate. Tali verità sovrannaturali e, come tali, inattingibili dalla ragione con le sue sole forze sono dono gratuito di Dio. Tale dono, dandosi storicamente ovvero nel tempo, necessita d'essere conservato e trasmesso.

Conservare e trasmettere sono due verbi di capitale importanza in riferimento al contenuto della Divina Rivelazione. Verbi che indicano la giusta relazione dell'uomo con la Divina Rivelazione. Se è Rivelazione che Dio fa di sé e non discorso che l'uomo fa di Dio, non sarà, per definizione, manipolabile, modificabile, adattabile da parte dell'uomo. L'uomo riceve gratuitamente da Dio il dono della Rivelazione perché sia trasmessa inalterata. L'uomo è beneficiario della Divina Rivelazione, non padrone!

Il contenuto della Divina Rivelazione è dono di Dio, è Tradizione ovvero ciò che è stato consegnato (dal verbo latino trado=consegno) da Dio.

Tutta la Divina Rivelazione è Tradizione in quanto tutta la Divina Rivelazione è stata consegnata da Dio e non partorita dall'uomo.

Consegnata a chi? Chi è il custode del Depositum Fidei?

Per rispondere a simile interrogativo non dobbiamo dire ciò che avremmo fatto noi se fossimo stati al posto di Dio. Ma ciò che realmente ha scelto di fare Dio. Non è difficile oggi sentire, come non lo era quando nel 1907 s. Pio X pubblicava l'enciclica Pascendi, frasi del tipo: "Dio si rivela nell'intimo della coscienza di ogni uomo". Non manca poi chi, con Lutero, teorizzi il libero esame delle Scritture.

Il punto è che è Dio a decidere come rivelarsi: Dio avrebbe potuto rivelarsi nell'intimo di ogni singola coscienza donando a ciascuno scienza e sapienza infusa. Invece ha scelto di rivelarsi con una Rivelazione pubblica, storica iniziata con Adamo e culminata e compresa in Cristo. Rivelazione che è rivelazione di precise verità esprimibili in rigorose proposizioni.

Dio avrebbe potuto affidare la Divina Rivelazione al singolo uomo. Certo avrebbe potuto … ma non lo ha fatto! Ha scelto, invece, di affidare la Divina Rivelazione, il Depositum Fidei alla Chiesa da Cristo fondata e dallo Spirito Santo vivificata. E' la Chiesa, sottolineo l'articolo determinativo singolare, è la Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana ad essere custode della Divina Rivelazione per positivo decreto divino. Per questo al di fuori o contro l'insegnamento della Chiesa non c'è ne ci può essere fede. La fede o è fede nelle verità da Dio rivelate così come insegnate dalla Chiesa o semplicemente non è!

E allora vediamo cosa ci insegna la Chiesa riguardo al Sacro Deposito della Divina Rivelazione. La Chiesa parla al riguardo di due fonti della Rivelazione: la Sacra Scrittura e la Sacra Tradizione "strettamente congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente" (CCC, 80).

Come abbiamo precedentemente detto, tutta la Divina Rivelazione può dirsi Tradizione in quanto Verità consegnata da Dio alla Chiesa. Ora, però, per Sacra Tradizione intendiamo quanto trasmesso oralmente dagli Apostoli e giunto sino a noi attraverso la ininterrotta successione apostolica mentre per Sacra Scrittura si intende quanto, della Divina Rivelazione, fu messo per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito Santo.

Dire che la Sacra Scrittura è la Divina Rivelazione scritta mentre la Sacra Tradizione è la Divina Rivelazione orale non deve trarci in inganno. Infatti noi oggi conosciamo la Sacra Tradizione anche attraverso scritti come le opere dei Padri della Chiesa, gli antichi testi liturgici, le opere degli antichi autori ecclesiastici, etc. Scritti che non fanno parte, però, della Sacra Scrittura, benché testimoni autorevolissimi della Divina Rivelazione.

Quale è il rapporto tra Tradizione e Scrittura?

Troppo spesso, anche tra noi cattolici,  si tace o, ancor peggio, si rifiuta la Tradizione come fonte della Divina Rivelazione riecheggiando, magari inconsapevolmente, il sola Scriptura di Lutero!

In verità, non solo la Tradizione e la Scrittura "devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di rispetto"[16] ma si deve anche riconoscere un certo primato della Tradizione sulla Scrittura. Primato che ha una quadruplice ragione:

-          Cronologica;

-          Di estensione di contenuto;

-          Esegetica;

-          Fondativa.

Cosa si deve intendere per primato cronologico? Parlare di primato cronologico della Tradizione sulla Scrittura significa riconoscere che la Tradizione ha preceduto la Scrittura fornendone, peraltro, i contenuti, tanto rispetto all'Antico quanto al Nuovo Testamento. Ad es. Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe non scrissero nulla, eppure ricevettero una Rivelazione da Dio che trasmisero per Tradizione. Tradizione poi confluita (presumibilmente solo parzialmente) in Genesi.

Per il Nuovo Testamento la cosa è ancor più rilevante. Infatti si ebbe la Chiesa prima della stesura del primo documento neotestamentario, tanto più del primo Vangelo. Ma la Chiesa, sin dal principio, predicò il Vangelo ovvero la Buona Novella dell'Uomo-Dio Gesù Cristo nato da Maria Vergine, Crocifisso e Risorto. Ciò significa che mai la Chiesa fu senza la Sacra Tradizione mentre si ebbe la Chiesa anche prima della Sacra Scrittura (neotestamentaria): "la prima generazione di cristiani non aveva ancora un Nuovo Testamento scritto" (CCC, 83) ma lo aveva nella Sacra Tradizione (orale).

Ciò porta a rilevare il secondo ordine di priorità, quello di estensione di contenuto. Infatti se la Chiesa nei suoi primi anni di vita fu senza Scrittura pur predicando al mondo la Divina Rivelazione interamente ricevuta e integralmente custodita (cfr. Gv 16, 12-15), ciò significa che l'intera Divina Rivelazione è contenuta nella Sacra Tradizione. E' con la Sacra Tradizione che "la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni, tutto ciò che Essa è, tutto ciò che Essa crede"[17].

La Sacra Tradizione contiene interamente la Divina Rivelazione, non così la Sacra Scrittura. Infatti, come insegna da sempre Santa Romana Chiesa anche nei documenti del Concilio Vaticano II, la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate "non dalla sola Sacra Scrittura"[18] essendoci verità di fede trasmesse dalla sola Tradizione. E' la funzione completiva della Tradizione. Completiva perché la Tradizione completa la Scrittura trasmettendo anche verità rivelate assenti nella Scrittura.

La Sacra Tradizione ha pure un primato di ordine esegetico. Infatti la Sacra Scrittura deve sempre essere interpretata alla luce della Tradizione. E' la Tradizione che fornisce il criterio interpretativo di quanto si legge nella Scrittura.

Sintetizzando possiamo dire che non è la Scrittura a interpretare la Tradizione ma la Tradizione ad interpretare la Scrittura. Tradizione che vive nella Chiesa, per cui è lecito asserire che la Sacra Scrittura è scritta nel cuore della Chiesa prima che sulla carta. Infatti "la Chiesa porta nella sua Tradizione la memoria viva della Parola di Dio" (CCC, 113).

In fine si deve ricordare anche che "è stata la Tradizione apostolica a far discernere alla Chiesa quali scritti dovessero essere compresi nell'elenco dei Libri Sacri" (CCC, 120). Questo è il primato che potremmo chiamare fondativo. Infatti la Sacra Scrittura è riconosciuta tale grazie alla Tradizione e dunque non si darebbe riconoscimento delle Sacre Scritture senza la Sacra Tradizione.

Sminuire la Tradizione priva la stessa Sacra Scrittura del proprio riconoscimento e della propria stessa riconoscibilità!

Tradizione e Scrittura, in quanto fonti della Divina Rivelazione, sono consegnate da Dio alla Chiesa che ne è unica custode ed interprete.

Abbiamo visto come sia la Chiesa a dover interpretare autenticamente, alla luce della Tradizione, la Scrittura e come sia sempre la Chiesa a definire, con la propria infallibile autorità, il Canone delle Scritture trasmesso dalla Tradizione.

Tanto la Scrittura quanto la Tradizione vivono nella Chiesa, mai fuori d'Essa.

E' la Chiesa la depositaria della Divina Rivelazione, tanto della Sacra Tradizione quanto della Sacra Scrittura. Come la Tradizione non è un morto reperto archeologico (archeologismo) ma vive nella Chiesa, così la Scrittura è nel cuore stesso della Chiesa, più che nell'inchiostro muto dei Libri Sacri. O meglio è nei Libri Sacri quando e perché tali testi sono proclamati dalla Chiesa e nella Chiesa.

La Sacra Scrittura insegna "fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere"[19], è la cosiddetta inerranza biblica. Tale veridicità della Sacra Scrittura è insegnamento della Chiesa, così che lo stesso credere nell'inerranza della Sacra Bibbia è credere alla parola della Chiesa che tale inerranza infallibilmente insegna. Come si vede, non si dà la possibilità di separare la Scrittura dalla Tradizione né dall'autorità della Chiesa.

Come dice s. Agostino con espressione forte ma vera: "Non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l'autorità della Chiesa cattolica"[20].

Il Vangelo, è vero, è legge per la Chiesa, ma io riconosco che quel dato libro è Vangelo perché me lo dice la Chiesa. Come si vede, non c'è neppure Sacra Scrittura se si toglie l'autorità della Chiesa.

L'autorità della Chiesa si esercita nella missione di custodire, interpretare e insegnare la Divina Rivelazione attraverso il Magistero, "la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo"[21]

Il Concilio Vaticano II ribadisce che "l'ufficio di interpretare autenticamente la Parola di dio scritta o tramandata è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa"[22], ovvero unicamente al Papa e ai Vescovi in comunione con la Prima Sede.

Il Magistero non crea nuove verità, non esiste per modificare o integrare la Divina Rivelazione trasmessa dalla Sacra Tradizione e dalla Sacra Scrittura. La Rivelazione pubblica si è chiusa con la morte dell'ultimo apostolo, s. Giovanni Evangelista, e nulla può essere mutato, tolto o aggiunto, neppure uno iota (cfr. Mt 5, 18). L'apostolo Paolo ribadisce il concetto maledicendo chiunque osi "cambiare il Vangelo di Cristo" (Galati 1, 7-8).

La Divina Rivelazione è sempre la stessa e non può mutare!

Compito del Magistero è proprio quello di garantire la fedeltà alla Tradizione, di trasmettere inalterato il Deposito della Fede.

Come insegna il Concilio Vaticano II, il Magistero serve la Parola di Dio "insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso"[23] nella più rigorosa aderenza alla Tradizione, secondo la regola aurea di s. Vincenzo di Lerino. Il Magistero è al servizio del Depositum Fidei in sé immutabile ed eterno: "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (Mt 24, 35).

All'inizio di questa catechesi abbiamo visto come il credere sia atto ecclesiale, ora lo possiamo riaffermare con maggiore consapevolezza. Credere è credere in tutte e singole le verità insegnate dalla Chiesa ma la Chiesa, con il proprio Magistero, non insegna nulla che non sia nel Depositum Fidei ovvero nulla che non sia Divina Rivelazione trasmessa dalla Sacra Scrittura o dalla Sacra Tradizione.

Quindi credendo a ciò che insegna la Chiesa si crede a ciò che Dio ha rivelato e si crede a ciò che Dio ha rivelato solo credendo a ciò che insegna la Chiesa.

Dio ci parla con la voce della Chiesa: "chi ascolta voi, ascolta Me" (Lc 10, 16).

Parafrasando un noto passo della Unam Sanctam, possiamo dire e, con ciò, concludere: Nulla fides extra Ecclesia, non c'è fede fuori dalla Chiesa!

SAMUELE dott. CECOTTI



 

[1] b. Giovanni Paolo II, Cost. Ap. Fidei Depositum, 1.

[2] Ibidem.

[3] Cfr. s. Tommaso d'Aquino, S. Th. II-II, 2, 9; CCC, 155.

[4] Concilio Vaticano I, Cost. Dogm. Dei Filius; CCC, 156.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] S. Tommaso d'Aquino, S. Th. II-II. 2, 1.

[10] ven. Pio XII, Lett. Enc. Humani generis; CCC, 38.

[11] Concilio Vaticano I, cit.; CCC, 36.

[12] Ibidem.

[13] s. Tommaso d'Aquino, Compendium theologiae, 1, 2. Sottolineiamo che, come la fede è conoscenza e non sentimento/emozione/fiducia, così è la conoscenza di Dio faccia a faccia a rendere beate la anime del Paradiso!

[14] Concilio Vaticano II, Cost. Dog. Dei Verbum, 3.

[15] Ugo di San Vittore, De arca Noe, 2, 8.

[16] Concilio Vaticano II, Cost. Dog. Dei Verbum, 9.

[17] Ivi, 8.

[18] Ivi, 9; sottolineatura non nel testo.

[19]Ivi, 11.

[20] S. Agostino, Contra epistola Manichaei quam vocant fondamenti, 5, 6.

[21] Concilio Vaticano II, Cost. Dog. Dei Verbum, 10.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.