Omelia di S.E. Card. Giacomo Biffi

1 Gennaio 1997 - S. Maria Madre di Dio

Questa giornata ci vede naturalmente intenti a esprimere a quanti incontriamo gli auspici di un avvenire prosperoso e lieto, quasi a persuaderci gli uni gli altri, all'inizio di un tempo nuovo, che c'è ancora ragione di sperare nell'uomo e di credere nella vita.
E tanto più fervidi si fanno i nostri auguri quanto più sono gravi le preoccupazioni e inquietanti i timori.
Per una felice intuizione del papa Paolo VI, diventata ormai una cara e sapiente consuetudine, la Chiesa oggi formula - tra gli altri e sopra gli altri voti - quello appassionato di una tranquilla convivenza tra gli uomini e tra le nazioni, e ci propone di cominciare l'anno civile nel bel nome della pace.
Però con il nome di "pace" - onorato a parole da tutti - non è sempre significata la stessa cosa. La concezione mondana più diffusa intende per "pace" semplicemente l'assenza di ogni conflitto armato (ed è già un bene prezioso e necessario). La concezione cristiana invece richiama con questo termine qualcosa di più profondo e sostanziale.
Mai questa differenza appare così decisiva ed evidente come nel tema che Giovanni Paolo II ha assegnato all'odierna celebrazione. La pace - egli dice - va perseguita "sui sentieri del perdono". Ed è ben difficile mettersi nella prospettiva del "perdono" - accordato sinceramente, senza unilateralità ideologiche, nel rispetto della verità storica e della giustizia - se non si tiene costantemente davanti agli occhi la misericordia che tutti noi abbiamo gratuitamente ottenuto in virtù del sangue di Cristo.
C'è anche da ricordare che, secondo l'ottica del Vangelo, dire di no alla guerra è cosa diversa dal dire di sì alla pace.
Per impedire la guerra a volte basta una rete di abili mediazioni o un gioco di interessi comuni. Altre volte basta l'equilibrio delle prepotenze e delle paure.
Ma così lo spazio lasciato alla pace è infido, malsicuro, provvisorio. Così non si impedisce l'assurdo rinascere di nazionalismi sempre protesi a rivendicazioni e a rivalse. Così continuano a dominare i potentati economici multinazionali, ispirati da antagonismi egoistici. E si assiste ancora al commercio di armi micidiali, con popoli che dovrebbero piuttosto essere provveduti di mezzi di istruzione, del cibo, di medicine, armi che poi, quando sono poste tra mani irresponsabili, finiscono presto o tardi coll'essere usate.
Noi siamo persuasi che la pace vera e duratura non può crescere sulle radici della scaltrezza politica, degli interessi selvaggiamente inseguiti, delle contrapposte paure. Noi siamo persuasi che per dire sostanzialmente di sì alla pace, gli uomini devono saper ritrovare una forma comune di pensare e di amare, il rispetto e l'attenzione ai diritti di tutti e non solo dei propri, e particolarmente l'arte difficile e sublime del perdono che sola può spezzare la spirale dell'odio e inaridire il ripululare di ostilità sempre rinascenti.
Al conseguimento di questo fine è indispensabile che si arrivi alla stessa visione dell'uomo; una visione che, pur rispettando l'originalità e la specificità delle varie culture, faccia da coefficiente spirituale identico per tutti, da tutti accettato come fondamento di verità.
Sotto questo profilo, grande è la fortuna e grande e la responsabilità dei cristiani, che hanno la concezione antropologica che è fondamento della vera pace come elemento chiaro e irrinunciabile del patrimonio della loro fede; una concezione antropologica alla quale essi per primi devono obbedire con rigorosa coerenza; così come anche devono saperla annunciare all'umanità intera con calda passione e limpida capacità persuasiva.
Nessuno pensi che questo discorso sia rivolto solo a coloro che reggono le sorti dei popoli. Ciascuno di noi porta dentro di sÈ i germi della pace e della guerra; ciascuno di noi perciò è chiamato a una verifica leale e coraggiosa della realtà aggrovigliata e ambigua del suo mondo interiore.
Quando accettiamo come dato ingiustamente discriminante, premessa di malevolenza e di sopraffazione, la diversità di razza o di religione o di cultura e di censo; quando ammettiamo che il progresso tecnologico e l'opulenza dei popoli ricchi possa essere strumento di asservimento dei popoli ancora in via di sviluppo: quando tolleriamo che la prepotenza di gruppi ideologici violi impunemente quella legge che invece gli onesti e i deboli devono rigidamente e duramente osservare; quando evadiamo dal dovere presente e concreto per sciogliere ogni personale responsabilità nel vagheggiamento di utopie inverificabili e astratte, allora in noi la pace decade e si sviluppa il germe della guerra.
Se al contrario ricerchiamo e amiamo la verità, in qualunque parte stia, e la preferiamo alle opinioni interessate e deformanti; se affermiamo si con impegno le nostre convinzioni, ma insieme ascoltiamo, valutiamo e rispettiamo quelle degli altri; se conserviamo intemerata la nostra coscienza e non violentiamo la coscienza altrui, se rompiamo la logica della vendetta con la generosità del perdono, e temiamo il male che possiamo fare agli altri molto più di quello che dagli altri potremmo subire; se non possiamo godere del nostro bene senza cercare che anche gli altri ne godano con noi, allora in noi progredisce la pace e vengono meno le premesse che portano alla guerra.

A concludere la nostra breve riflessione, poniamoci in ascolto dell'esortazione finale del papa.

"A tutti voi che credete in Cristo rivolgo l'invito a camminare fedelmente sulla via del perdono e della riconciliazione, unendovi a lui nella preghiera al Padre perchÈ tutti siano una cosa sola (cf Gv 17,21). Vi esorto, altresì, ad accompagnare questa incessante invocazione di pace con gesti di fraternità e di accoglienza reciproca. Ad ogni persona di buona volontà, desiderosa di operare instancabilmente all'edificazione della civiltà nuova dell'amore, ripeto: offri il perdono, ricevi la pace!".