Omelia per il Te Deum di fine anno

Un altro anno tra poche ore giungerà a conclusione. E subito un anno nuovo comincerà la sua corsa.
Davanti a ciò che irrimediabilmente finisce siamo sempre indotti a essere pensosi e magari un poco appenati. E dunque anche stasera.
Forse è la memoria di qualche delusione incontrata nei dodici mesi trascorsi, forse l’infittirsi delle stanchezze di spirito che si vanno come stratificando sul nostro essere a mano a mano che il tempo passa. Può essere persino il rimpianto per qualche gioia goduta e poi rapidamente dissolta. O forse, e in maniera più pungente, è la consapevolezza che, con l’anno, va perduto anche qualcosa di noi.
Stasera dunque si eleverà sì l’inno giubilante del Te Deum, ma non mancherà probabilmente qualche filo di mestizia nel nostro canto. E mentre ringraziamo Dio della protezione e dei benefìci che ci sono stati accordati, sentiamo di dovergli chiedere perdono delle nostre superficialità, delle nostre incoerenze, di qualche positiva resistenza alla sua grazia. Questa allora sia la nostra implorazione: “Se qualcosa di buono abbiamo compiuto, non dimenticarlo, Signore; e su quanto nel nostro agire non è stato esente da imperfezione o da colpa, stendi pietoso il velo della tua misericordia”.
Ma già con domani riprendemo a vivere con slancio rinnovato.
Tutto ciò che comincia è per se stesso un invito a rallegrarci e a riavere fiducia. La prima mattina del nuovo anno ci verrà perciò incontro carica di promesse e di speranze. Questo, a ben guardare, è il fondamento psicologico degli auguri che ci scambieremo: auguri di un’esistenza più serena, auguri di soddisfazioni legittime conseguite, soprattutto auguri di maggior sicurezza e di pace. Ma per i credenti - e poco o tanto “credenti” lo siamo tutti, noi che siano qui convenuti - nel movimento (per così dire) orizzontale degli auspici che ci legano gli uni agli altri, è intrinseco un movimento verticale, indirizzato al cielo, perché, come sta scritto, “ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (cfr. Gc 1,17).
Senza dubbio ogni augurio espresso agli altri è sempre un atto gentile e un’attenzione fraterna, che ha un suo incontestabile pregio; ma se vuol essere insieme una parola sostanziosa e piena di verità, ogni augurio deve essere almeno implicitamente anche una preghiera: una preghiera a chi sta sopra di noi e può disporre delle vicissitudini umane.
Noi ci siamo qui radunati in questo rito perché vogliamo esprimere al Signore la nostra riconoscenza: desideriamo dirgli il nostro “grazie”, pur dopo un anno travagliato e difficile come quello che oggi arriva al suo ultimo traguardo.
Vogliamo esprimere riconoscenza anche per il privilegio che ci è toccato, rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto, di vivere in un’epoca arricchita oltre ogni previsione dai successi della scienza e della tecnica. Perché noi riteniamo che il progresso sia per se stesso un valore, e vada giustamente apprezzato.
Certo, se siamo abbastanza disincantati, oggi non ci esaltiamo più, come i nostri predecessori dell’Ottocento e del primo Novecento, per “le magnifiche sorti e progressive”. Noi possiamo renderci conto ormai dei guai e dei pericoli insorti nel mondo contestualmente con lo sviluppo scientifico e tecnico.
Il progresso risolve molti dei nostri angosciosi problemi, ma ne pone di nuovi, specialmente se non è guidato e ispirato da un umanesimo autentico ed essenziale.
Sicché noi siamo stasera radunati in preghiera nella casa di Dio anche perché abbiamo la consapevolezza che non bastano le nostre genialità e le nostre bravure ad assicurarci tutta la saggezza, tutta la speranza, tutta la serenità, di cui sentiamo, oggi più che mai, di avere un estremo bisogno. Noi siamo qui a implorare su di noi, sulla nostra città, sulla nostra nazione, su tutti i nostri contemporanei, un po’ di luce dall’alto, un po’ di forza più che umana, una più grande capacità di esercitare il nostro impegnativo mestiere di uomini.
In queste ore, nelle quali alla nostra comune coscienza si impone con singolare acutezza il pensiero del rincorrersi degli anni e dell’inarrestabile fluire del tempo, le menti più riflessive sono invogliate a chiedersi: dove va l’umanità? Sta percorrendo una strada tracciata, che porta da qualche parte, o vaga senza un percorso previsto e senza mèta? In una parola, che senso ha quella vicenda di sofferenze, di prepotenze, di ingiustizie, che è la storia umana?
Da quasi tre secoli si succedono su questo argomento le ipotesi più varie e le concezioni più elaborate. L’illuminismo, l’idealismo, il marxismo (tanto per fare degli esempi) hanno formulato le loro proprie “filosofie della storia”. Ma chi ci crede più? Si ha l’impressione che siano tutte passate di moda.
Forse, a voler rispondere a tale questione utilizzando le nostre sole forze conoscitive - e quindi in una prospettiva del tutto intramondana - è il caso di rassegnarsi ad accogliere una famosa opinione di Shakespeare (che mi ha colpito fin da quando ero ragazzo): la storia umana, egli dice, è “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla” (Macbeth V,5).
Ma possiamo rassegnarci a esistere, a faticare, a soffrire per un destino così irrazionale? Possiamo rassegnarci a spendere la nostra unica vita entro il discorso e la trama di “una favola raccontata da un idiota”?
Per fortuna il Creatore ha avuto misericordia di noi e ci ha salvati da simile assurdità, rivelandoci che la nostra vicenda è il riverbero nel tempo del “disegno eterno che egli ha attuato in Cristo Gesù” (cfr. Ef 3,11): un disegno arcano e arduo, che fa posto al dolore, alla prova, alla “via della croce”, ma finalizzato alla gioia, alla risurrezione e alla vita senza fine; un disegno centrato sull’Incarnazione del Verbo eterno di Dio.
Ce lo ha detto ancora una volta Isaia nella liturgia natalizia: “Un bimbo è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre del secolo futuro, Principe della pace"”(Is 9,5).
Il Figlio Unigenito di Dio è entrato nella nostra vicenda e l’ha colmata di sé, diventandone il cuore, il fastigio, la significazione più vera.
La storia parte da lui, perché “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (cfr. Col 1,16); si svolge sotto lo sguardo di lui che la domina stando alla destra del Padre; e si concluderà ai suoi piedi, “quando egli consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza” (cfr. 1Cor 15,24).
Perciò adesso, mentre un altro anno muore, siamo qui soprattutto per inneggiare a lui, Signore dell’universo, della storia e dei cuori, e gli diciamo:

 

“O Cristo, Re della gloria…
O vincitore della morte,
che hai aperto ai credenti il Regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre.
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi…
Accoglici nella tua gloria
nell’assemblea dei santi”