III Domenica di Quaresima

letture: Es.17,3-7 sal,g4 Rm.s,1-2.5-8:Gv.4.5-42

L’itinerario di queste domeniche quaresimali ci ha introdotto un passo dopo l’altro verso la comprensione della condizione umana. La prima domenica con l’essere condotti nel deserto con Cristo: qual è la prima cosa che si prova nel deserto, quella cosa che diviene via via predominante? E la sete! Oggi il vangelo parte proprio di qui.

C’è qualcosa di straordinario in tutta questa vicenda dell’incontro tra Gesù e la samaritana al pozzo di Giacobbe. Quel pozzo è una realtà tanto è vero che ancora esiste in Samaria ed è accessibile al pubblico e si può bere la sua acqua tuttavia proprio la sua esistenza ancora oggi, dopo quasi quattromila anni, dai tempi di Giacobbe, fa pensare ad esso come ad un simbolo, fa pensare alla sete dell’uomo e all’acqua che può calmarla nella stessa ottica con cui Gesù parla di un’altra sete e di un’altra acqua. Tutto il brano del Vangelo di oggi è costruito su questa allusione di Gesù a quella sete dell’uomo che è il bisogno di adorare.

Sulle labbra della samaritana il contenuto del dialogo passa spontaneamente dalla sete dell’acqua del pozzo alla questione dell’adorare e del luogo dove cercare Colui che si deve adorare.

L’uomo passa la sua vita ad adorare qualcosa o qualcuno e questo qualcosa e questo qualcuno diventano il motivo dell’umano vivere. Così l’essere umano cerca la sua felicità in cose e persone a cui attaccarsi in una sorta di adorazione più o meno consapevole e più o meno stabile. Ma come il pozzo di Giacobbe è è assai profondo, tanto è vero che quando si lascia cadere dell’acqua verso il suo fondo occorre aspettare qualche secondo per sentirne il tonfo, così occorre attingere al fondo del proprio cuore umano per trovare la vera sete, la sete di Dio che vi è inscritta dentro. I veri adoratori non sono quelli che si accontentano della superficie, non sono quelli che confondono l’aria che si trova alla superficie con l’acqua che si può attingere solo nel fondo. Adorare in spirito e verità significa partire dal bisogno che abbiamo che la nostra vita sia umana, sia vera.

Anche per noi è possibile adorare Dio in un modo sbagliato, cioè non adorarlo davvero, perché non conosciamo veramente chi è Cristo per noi: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: ‘dammi da bere’”. Quante volte siamo prossimi al Signore, lo abbiamo lì, a disposizione nella comunità e nei sacramenti, nella nostra stessa preghiera, nel silenzio, eppure non lo conosciamo per quello che è veramente per noi. Noi non siamo convinti che Cristo sia necessario per vivere, per questo la nostra adorazione è solo apparente, o comunque superficiale perché non pesca nel pozzo profondo della nostra umanità, ma solo nella superficie del terreno sul quale siamo con i piedi, ma il nostro cuore è altrove.

Per imparare ad adorare bisogna cominciare ad accorgersi che senza di lui non possiamo fare nulla perché non siamo nulla. Noi non sappiamo neppure chi siamo, fino a che Lui, come fece con la samaritana, non ci racconta chi siamo facendoci conoscere a noi stessi per quello che siamo veramente e non appena per quello che crediamo o presumiamo di essere. Quando anche a noi accade di incontrare qualcuno che nel nome di Cristo e della Chiesa è capace di descriverci chi siamo molto meglio di quanto non lo sappiamo fare noi, quando anche noi siamo condotti da questa sorpresa a dire: “Vedo che tu sei un profeta”, perché mi dici quello che ho fatto, cioè quello che sono, quando ci troviamo a doverci arrendere all’evidenza della sua affermazione: “Sono io che ti parlo”, allora inizia la strada della vera adorazione e i piedi e le parole e la mente si muovono per cercare compagnia, la compagnia che sarà la Chiesa, la compagnia di qualcuno che come me riconosce in lui il Salvatore e mi conferma, mi sostiene, mi guida autorevolmente in questa scuola della vera adorazione di Dio che è la vita, aiutandomi a ripulirmi delle false e inutili adorazioni di quelle cose e persone che non sono Dio, ma sono fatte piuttosto per ricordarmelo, anziché per distrarmene.

La vita viene trasformata: i rapporti con le persone non sono più fonte di possesso e di attaccamento. Si impara a farsi compagnia attraverso la preghiera per l’altro, cosicché il ricordarmi dell’amico diviene aiuto a ricordarmi di Cristo. Insieme si prega il Signore di essere presente tra noi. “Lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni”.

Questi due giorni come sono pochi, come sono brevi, anche se simbolo della vita umana, il tempo della storia. La sete riceve appena il suo anticipo di risposta nella nostra storia umana: essa esige l’eternità per essere totalmente soddisfatta.

Ma questi due giorni della sua presenza sono già l’anticipo e l’inizio, l'inizio di quella “fonte d’acqua che zampilla per la vita eterna”. La vita nella fede sia per noi questo inizio.