Io Credo in Dio Padre Onnipotente

Catechesi per gli Adulti dell'Unità Pastorale di San Giovanni in Persiceto
Secondo incontro - 9 Dicembre 2011

Nella precedente catechesi avevamo concluso affermando extra Ecclesia nulla fides sottolineando così l'impossibilità che la fede teologale si dia fuori dalla Chiesa, essendo la fede il credere a tutto ciò che infallibilmente la Santa Madre Chiesa insegna.

La fede noi la riceviamo dalla Chiesa come il Rituale Romano ci dice nella liturgia del Battesimo: "Che cosa chiedi alla Chiesa di Dio?" domanda il ministro. "La fede" risponde il catecumeno. E la fede dona la vita eterna: "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato" (Mc 16, 16).

Questa grande verità, l'ecclesialità della fede che salva ovvero della fede cattolica, la troviamo confermata dal CCC nel suo stesso strutturarsi, nella parte relativa alla Professione della Fede cristiana, secondo gli articoli del Credo.

Il testo che il b. Giovanni Paolo II, con il CCC, espone ed esplicita per presentare la Professione di Fede è un testo della Tradizione apostolica quale il Simbolo degli Apostoli, antichissimo simbolo battesimale della Chiesa di Roma, completato dal Simbolo niceno-costantinopoletano, ovvero da un documento di Magistero solenne e infallibile.

Il contenuto della nostra fede, la fides quae creditur, è tale in ragione della Tradizione apostolica garantita e presentata dal Magistero di Santa Romana Chiesa.

Nel precedente incontro avevamo anche sottolineato come non si dia virtù di fede senza contenuto, non c'è fides qua creditur senza fides quae creditur, proprio perché l'atto di fede è atto dell'intelletto, la fede è virtù conoscitiva, è adesione della persona alla Verità Rivelata, non già "un certo particolar sentimento [un] sentimento religioso […] che si sprigiona dai nascondigli della subcoscienza" (s. Pio X, Enc. Pascendi).

Ciò è confermato dal b. Giovanni Paolo II, interprete del bi millenario insegnamento della Chiesa, il quale, con s. Pio V e s. Pio X, presenta nel CCC "l'oggetto della fede"[1] in precise formule dogmatiche costituenti gli articoli del Credo.

In tutti e singoli questi articoli ci è chiesto di credere, come in ogni dogma di fede, per la salvezza dell'anima nostra. Credere aderendovi con l'intelletto: in ciò consiste la fede cattolica senza la quale "è impossibile essere graditi a Dio" (Eb 11, 6) perché "nessuno può essere mai giustificato senza di essa e nessuno conseguirà la vita eterna se non persevererà in essa sino alla fine" (Concilio Vaticano I).

Non ci è chiesto di provare particolari emozioni, non ci è chiesto d'avere questo o quel sentimento. Non sono richiesti passionali moti dell'anima. Ci è chiesto un atto libero e consapevole di adesione alla Verità Rivelata. Ci è chiesto di credere a tutto ciò che la Chiesa infallibilmente insegna!

Il cristiano deve aderire sempre più convintamente e fedelmente alla Dottrina della Fede insegnata dal Magistero, deve cioè rendere il proprio intelletto umile, capace di aderire senza riserve al dato rivelato secondo una prospettiva oggettiva e non soggettivistica: è l'uomo che deve aderire alla Verità e a questa adeguarsi, non viceversa!

Il cristiano deve conformarsi alla Verità da Dio rivelata e dalla Chiesa insegnata, questo è aver fede. La fede non si misura con il metro delle emozioni. La vera fede eleva l'uomo alla conoscenza oggettiva di Dio mentre una così detta fede, concepita come sentimentalismo, implica che tutto vada "attribuito ad intimi bisogni" (s. Pio X, Enc. Pascendi) dell'uomo. Si riduce la religione a psicoterapia, anzi ad uno psicofarmaco!

"Fin dalle origini, la Chiesa apostolica ha espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e normative per tutti" (CCC, 186).

Il fatto che la Chiesa, fin dalle origini, abbia trasmesso la fede in formule significa, come si è detto, che il contenuto della fede è un dato oggettivo, precise verità esprimibili in precise formule. Solo un contenuto oggettivo può essere espresso in formule, non certo un sentimento, una emozione o una generica fiducia. Che poi queste formule siano "normative per tutti" (CCC, 186) toglie ogni possibile legittimazione al soggettivismo religioso.

Non sono credente perché sento che Dio mi ama, non sono credente perché mi commuovo pensando a Gesù, sono credente solo e solamente se aderisco con il mio intelletto alla Verità Rivelata e dalla Chiesa insegnata in formule "normative per tutti" (CCC, 186). Al punto che s. Cipriano può scrivere: "Non può avere Dio per Padre chi non ha la Chiesa per Madre", verità che Benedetto XVI volle comparisse nel Compendio del CCC da lui promulgato nel 2005.

Occorre subito precisare con s. Tommaso che "fides non terminatur ad enunciabile sed ad rem"[2] ovvero che le formule di fede non sono il fine ma il mezzo per conoscere Dio vero fine. Deus per Deum cognoscitur è la conoscenza di fede tanto che s. Tommaso parla della fede come "quaedam impressio divinae scientiae in nobis"[3], una qualche partecipazione in noi della scientia Dei.

Noi, attraverso le formule dogmatiche che la Chiesa ci insegna, conosciamo Dio come solo Dio si conosce. E la Chiesa primariamente trasmette e insegna queste verità divine nel Simbolo della Fede che è Simbolo battesimale secondo il comando di NSGC - "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo" (Mc 16, 16) - parole di Cristo che legano indissolubilmente fede e battesimo quali condizioni necessarie per la salvezza.

"Poiché il Battesimo viene dato nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (Mt 28, 19), le verità di fede professate al momento del Battesimo sono articolate in base al loro riferimento alle tre Persone della Ss.ma Trinità" (CCC, 189).

Abbiamo così il Simbolo della fede diviso in tre parti: "La prima è consacrata allo studio di Dio Padre e dell'opera mirabile della creazione; la seconda allo studio di Gesù Cristo e del Mistero della Redenzione; la terza allo studio dello Spirito Santo, principio e sorgente della nostra santificazione. Il tutto condensato in molteplici e opportune sentenze" (s. Pio V, Catechismo Romano).

Faccio notare la parola "studio" usata da s. Pio V. Ancora una ulteriore conferma della natura conoscitiva e intellettuale della fede!

"…" (CCC, 191).

Si è detto che l'esposizione del contenuto della Fede nel CCC segue il Simbolo degli Apostoli integrato dal Simbolo niceno-costantinopoletano. Entrambi i Simboli sono riportati integralmente tanto nel CCC, quanto nel Compendio del CCC.

Leggendo e meditando l'uno e l'atro si noteranno delle differenze, delle parti di uno assenti nell'altro e viceversa. Mai però contraddizione tra l'uno e l'altro a conferma che il Deposito della Fede non può subire mutamento. Il Magistero conciliare di Nicea e Costantinopoli mai avrebbe potuto mutare neppure uno iota di quanto insegnato dagli Apostoli.

La Chiesa a Nicea e a Costantinopoli esercitò il proprio Magistero solenne nella sua forma più alta, infallibile, quella delle definizioni dogmatiche, nella più assoluta fedeltà alla Tradizione ricevuta dagli Apostoli. Lo stesso dicasi per il Filioque, in un secondo tempo introdotto nel Credo.

Ci troviamo di fronte, esemplarmente, a quello che viene definito progresso conoscitivo del dogma. Nulla viene aggiunto al Deposito della Divina Rivelazione ma tutto viene approfondito, meglio compreso ed esplicitato dal Magistero. Magistero che poi fissa tali esplicitazioni del Depositum Fidei in formule dogmatiche.

Riguardo al progresso dogmatico, da intendersi come progresso conoscitivo e non creativo (cioè si conosce sempre meglio la stessa e identica Verità Rivelata trasmessa dalla Tradizione, non si creano nuove verità!), un sicuro maestro è il card. J. H. Newman recentemente beatificato dal Pontefice f.r.  …

Per tutti ha parlato il Concilio Vaticano I che, con la Costituzione dogmatica Dei Filius al capitolo IV, insegna infallibilmente che tale progresso deve sempre essere omogeneo, ovvero "solo nel suo genere, cioè nello stesso dogma, nello stesso senso e nella stessa sentenza" (Concilio Vaticano I, Cost. Dog. Dei Filius). Sempre vale la regola aurea di s. Vincenzo di Lerino.

Veniamo dunque al 1° articolo del Simbolo della Fede: "Credo in Deum Patrem omnipotentem, Creatorem caeli et terrae" così il Simbolo degli Apostoli, "Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem Factorem caeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium" così il Credo niceno-costantinopoletano.

A parte la diversa sfumatura data da "Creatorem" del Simbolo Apostolico e "Factorem" del Simbolo niceno-costantinopoletano, nella traduzione italiana resi entrambi con "Creatore", si notano due integrazioni operate dal Magistero al Simbolo apostolico: Dio è precisato "unum" e la professione di Dio Creatore dei cieli e della terra è reduplicata in quella di Dio Creatore "visibilium omnium et invisibilium".

Sono, come è facile constatare, esplicitazioni di verità già contenute nel Simbolo degli Apostoli ma, non per questo, introdotte nel Credo senza importantissime ragioni. Il Magistero, esplicitando ciò che era implicito, ha voluto preservare la purezza della fede da errori ed eresie sconosciute agli Apostoli ma virulentemente manifestatesi nei tempi post apostolici.

Così quella che ad uno sguardo superficiale potrebbe apparire come una innovazione, in realtà testimonia lo sforzo secolare della Chiesa nella fedele conservazione del Depositum Fidei affinché nulla di nuovo si aggiunga alla Divina Rivelazione, da Cristo stesso dichiarata in Lui perfetta e definitiva. "Ego enim accepi a Domino quod et tradidi vobis" (1 Cor 11, 23) questa è la logica della Tradizione di cui il Magistero è custode!

"Credo in un solo Dio" queste le prime parole del Simbolo della Fede. Parole che recitiamo tutte le domeniche alla S. Messa, parole che chiudono e coronano la parte didattica della S. Messa. Parole che sono la sintesi perfetta di quella pedagogia della fede che è la Liturgia della Parola.

Quante volte però recitare il Credo alla Messa è più un esercizio di lingua, bocca e corde vocali che di intelligenza?

Troppe volte il Simbolo della Fede, quando è conosciuto (purtroppo non mancano neppure i cattolici che lo ignorano), è ridotto a parole imparate a memoria e ripetute come mero flatus vocis.

Il peggio però non è la semplice ignoranza, magari abissale ma ingenua e umile, di chi ripete a pappagallo. Ben più grave è l'atteggiamento di quanti si fanno il proprio Credo, il Credo secondo me, non modificandolo nelle parole, bensì interpretando le stesse secondo la propria opinione così da avere in testa un Credo diverso da quello della Chiesa, pur identico nelle parole pronunciate con la bocca.

Un tale Credo secondo me può essere frutto di deliberata impugnazione della verità conosciuta ed avremmo allora un peccato contro lo Spirito Santo, una vera eresia formale. Il più delle volte però non è impugnazione della verità conosciuta, semplicemente perché non si conosce la verità e quindi se è eresia, lo è solo in senso materiale. Non si conosce la verità, non nel senso che si ignori la formula di fede ma, piuttosto, se ne ignora il significato vero, quello insegnato dal Magistero di Santa Romana Chiesa.

E così, il vuoto di contenuto lasciato da una formula incompresa si riempie di opinioni soggettive, per ciò stesso abusive e quasi sempre anche assurde in quanto contrarie a ragione, oltre che alla fede. Dietro ad una fede trinitaria proclamata a voce, quante volte si nasconde un assurdo triteismo o le più varie eresie trinitarie?

"Lo stolto non si preoccupa di capire, ma di dire quel che pensa" (Prov 18, 2). Basterebbe invece l'umiltà di imparare, l'umiltà di mettersi in ossequioso ascolto del Magistero, il quale attraverso la voce dei Pastori trasmette il senso cattolico del Credo.

Un simile benefico atteggiamento è ostacolato, non solo dalla natura ferita dell'uomo che inclina alla superbia, ma anche da una certa idea della vita cristiana dove, in fondo, si afferma l'irrilevanza del dato dottrinale. Una sorta di elogio dell'ignoranza in nome della semplicità evangelica!

La finalità della catechesi è proprio quella, invece, di ribadire la centralità, nella vita cristiana, della Verità Rivelata. Verità che ogni battezzato, come ci insegna il Servo di Dio Paolo VI, è tenuto, secondo le proprie possibilità, a conoscere. E, sempre Paolo Vi, precisa: chi non adempisse a questo dovere di studio e di riflessione commetterebbe peccato mortale! Il Servo di Dio Paolo VI ci ricorda così che il cristiano è chiamato a studiare la Dottrina, a riflettere e meditare sul Dogma di Fede, a conoscere con sicurezza il Simbolo della Fede nel senso cattolico insegnato dal Magistero. E' dottrina costante e certa della Chiesa che "mancano gravemente quelli che trascurano di farlo"[4].

E come fare tutto ciò se non impegnando la ragione, come se non con uno sforzo intellettuale applicato al dato di fede.

Certo io posso recitare il Credo anche senza il minimo esercizio della ragione, tuttavia come potrò dire di credere se neppure so in cosa credo!

Come si vede, credere è sempre un atto dell'intelletto, atto che non prescinde mai dalla ragione. Anche perché se l'uomo, secondo la definizione aristotelica divenuta classica, è un animale razionale, qualora si concepisse la fede prescindendo dalla ragione, si dovrebbe dire che la fede riguarda l'uomo in quanto animale. Bestemmia inascoltabile!

Eppure chi fa della fede un sentimento, riduce tutto alla dimensione irrazionale e dunque animale dell'uomo.

Illuminanti, al riguardo, le parole che il grande Dottore della Chiesa s. Alberto Magno rivolse a quei frati (suoi confratelli) che, già al suo tempo, contestando lo studio della filosofia, asserivano l'inutilità della ragione speculativa nella vita di fede.

Il Dottore Universale non teme di applicare ai nemici della ragione speculativa le parole degli apostoli Pietro (…) e Giuda (cfr. Giuda 10-13) rivolgendosi loro come a "tamquam bruta animalia blasphemantes in iis quae ignorant"[5]. S. Alberto Magno apostrofa quei frati come bruti animali, come bestie, non a mo' di insulto bensì in senso tecnico. L'uomo, ogniqualvolta rinuncia all'esercizio della ragione, si condanna ad essere come una bestia!

Il Signore che ci ha creati di natura razionale non può certo volere che per aderire alla Sua Rivelazione ci facciamo bestie irragionevoli. E di fatti non lo vuole!

La fede ci è data per elevarci a Dio, non certo per abdicare alla nostra natura razionale sprofondando così nell'animalità. Il cristianesimo è cosa divina, non bestiale! Non sarà, dunque, esercizio di stucchevole intellettualismo immergerci nel mistero di Dio sforzandoci di gustare intellettualmente, quanto più profondamente possibile, il dato rivelato che la Chiesa infallibilmente ci insegna.

E' tale la ricchezza del tesoro di Verità posseduto dalla Chiesa  nel Depositum Fidei e che la Chiesa maternamente ci dona con il suo Magistero che solo uno stolto potrebbe vivere disinteressandosene!

"…" (CCC, 198).

"Giustamente quindi i cristiani affermano per prima cosa di credere in Dio"[6], è la verità del teocentrismo che tanto dispiace alla superbia dell'uomo moderno cultore di un antropocentrismo che si giustifica nell'ateismo postulatorio di un Nietzsche o di un Sartre e poi si realizza come nichilismo dove lo stesso uomo che si voleva esaltare è ridotto a nulla, all'insignificanza più radicale.

Il Magistero di Santa Romana Chiesa ci richiama invece al solo realismo, alla verità di Dio "Principio e Fine di tutto" (CCC, 198).

"Tutto il Simbolo parla di Dio e se parla dell'uomo e del mondo, lo fa in rapporto a Dio" (CCC, 199). L'uomo non è il centro, né il singolo né la comunità, la sola cosa che conta veramente è Dio! E di Dio ci dice che è "unico per natura, per sostanza e per essenza"[7] confermando per fede ciò che la ragione già dimostra, ovvero che "l'Essere supremo deve necessariamente essere unico, cioè senza eguali […] Se Dio non è unico, non è Dio"[8]. Infatti "è inconcepibile che l'infinito e l'assoluto si riscontrino in più d'un soggetto. E se a uno manca qualcosa per toccare la perfezione assoluta, con ciò stesso è imperfetto, né può convenirgli la natura divina"[9].

Dio si è rivelato come l'Unico ad Israele, Mosè infatti insegna al popolo che "Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo" (Dt 6, 4) e ad Isaia il Signore dice "Io sono Dio; non ce n'è altri" (Is 45, 6 e 22). Cristo stesso ha insegnato l'unicità di Dio in Mc 12, 29.

Benché verità di ragione, l'unicità di Dio costituisce una delle verità della Divina Rivelazione che Dio, con sapiente e paziente pedagogia, ha, lungo i millenni, insegnato per mezzo di Mosè e dei profeti e in Cristo Nostro Signore.

La ragione umana può con certezza dimostrare l'esistenza di Dio e la sua unicità, tuttavia, a causa del peccato originale, l'umanità decaduta si andò viepiù allontanando da questa originaria certezza, da quello che è stato con ragione chiamato monoteismo originario, quello cioè degli antichi Patriarchi, Adamo, Abele, Noè, etc.

Israele visse sempre circondato dal politeismo e l'idolatria fu la sua costante tentazione. Così l'unicità di Dio, pur dimostrabile con la ragione, fu la fede di Israele, il segno che distingueva il Popolo eletto dalle genti pagane.

Se il Simbolo niceno-costantinopoletano integra il Simbolo apostolico con l'affermata unicità di Dio non è però a ragione d'un rischio di politeismo in seno alla comunità dei credenti. La tentazione dell'idolatria non è mai sconfitta, così che il peccato contro il primo comandamento vede sempre nuovi idoli sostituirsi ai vecchi (sono idoli di oggi, ad es., tutte quelle idee assolutizzate dalle ideologie), tuttavia il politeismo, come corruzione della ragione prima ancora che errore di fede, si presentava sfibrato e morente già prima dell'avvento del Cristianesimo. Agli dei delle genti, che la Scrittura riconosce come demoni, non credeva più nessuno, neppure Giuliano l'Apostata e i suoi seguaci, i quali intesero gli dei pagani, di cui restauravano il culto, in senso simbolico-magico più che reale. Il vecchio politeismo restava ormai confinato ai margini del pagus nella forma rozza della magia/stregoneria.

Se la Chiesa, maternamente provvidente, sottolinea l'unicità di Dio è in ragione della cattiva lettura che troppi diedero e danno del dogma trinitario. Affermare l'unicità di Dio significa negare ogni triteismo. Non tre dei ma un unico Dio in tre Persone.

"Crediamo fermamente e confessiamo apertamente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e ineffabile, Padre, Figlio e Spirito Santo: tre Persone, ma una sola Essenza, Sostanza, cioè Natura assolutamente semplice" così il Concilio Lateranense IV del 1215.

Questo Dio che riconosciamo unico e in cui crediamo - "Credo in unum Deum" - è anonimo o a noi si è rivelato? Ci ha rivelato la Sua identità?

Il CCC ci ricorda che Dio rivelò ad Israele il proprio Nome. Infatti Dio non è un nome proprio, il Nome di Dio non è Dio. S. Tommaso d'Aquino, con il suo solito acume, rileva che Dio è nome comune predicabile di più cose e di più cose predicato nella stessa Scrittura. Il nome proprio di Dio, ciò che ne indica l'essenza, è, per s. Tommaso, l'Essere: Dio è l'Essere, l'Ipsum esse per se subsistens, l'Essere per sé sussistente, l'Essere per essenza.

Il Nome di Dio, Dio stesso lo rivela a Mosè e tale rivelazione coincide perfettamente con ciò che la ragione speculativa nel suo più alto grado, rappresentato dalla scienza metafisica, dimostra essere Dio.

Se la metafisica dimostra l'esistenza di Dio come l'Essere per sé sussistente, Dio stesso si rivela a Mosè come "Ego sum qui sum" (Es 3, 14).

Il nome in una concezione realista del linguaggio, come quella biblica, rappresenta l'essenza della cosa o persona di cui è nome. "Il nome esprime l'essere, l'identità della persona e il senso della sua vita" (CCC, 203). Conoscere il nome di una cosa significa conoscerne l'essenza e, in qualche modo, possederla. Rivelare il proprio nome "in qualche modo è consegnare se stesso rendendosi accessibile, capace di essere conosciuto più intimamente e di essere chiamato personalmente" (CCC, 203). Per questo la pronuncia del Nome di Dio era segreta e conosciuta dal solo Sommo Sacerdote che, nel segreto del Sancta Sanctorum, poteva, lui solo, invocare Dio con il Suo Nome.

Il nome di Dio è costituito dal tetragramma consonantico YHWH (yod, he, waw, he: quattro consonanti dell'alfabeto ebraico) vocalizzato dai Masoreti con le vocali di Adonai (Signore) e quindi pronunciato Yehowah. Oggi si ritiene pronuncia corretta quella di Yahweh!

Al di là della questione di pronuncia, si deve sottolineare il valore metafisico del tetragramma divino essendo una contrazione del verbo "essere" in ebraico, secondo i tempi passato, presente e futuro. Dio, rivelando il Suo Nome, ci dice di Sé che era, è e sarà. Più precisamente che eternamente è.

Non è un caso dunque se il tetragramma divino è stato tradotto lungo i secoli cristiani come "l'Eterno". Dio è l'Eterno perché è l'Essere con la E maiuscola.

Tanto i Settanta quanto s. Girolamo e con lui tutta la Chiesa hanno tradotto Es 3, 14 con valore metafisico riconoscendo il Dio l'Essere!

Si sa che parlare di Essere, di Eterno, di Immutabile non corrisponde alla deriva nihilista moderna. …

Si vorrebbe portare il divenire, il progresso, il mutamento anche in Dio. Ma ciò è semplicemente assurdo: un Dio che diviene, che muta, semplicemente non è Dio. Vallo te a spiegare a certi biblisti impregnati di storicismo!

Hans Kung, il teologo eretico condannato nel 1979 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in un suo voluminoso saggio del 1978 "Dio esiste", nel capitolo "L'unico Dio con un nome", riprende le teorie del socialista Buber e del marxista Bloch interpretando il Nome di Dio in senso volontari sta e antimetafisico facendo di Dio un soggetto in divenire. Dio non come "Colui che E'" ma come "Colui che diverrà"! Una sorta di dinamismo storico in Dio quando, invece, Dio "trascende il mondo e la storia" (CCC, 212). L'assurdità e l'eresia sono lampanti!

Purtroppo non è difficile trovare, anche in saggi di teologia e nelle note di alcune Bibbie, simili corbellerie.

Lo stesso Kung, per altro, nelle pagine di quello stesso capitolo, ammette che tutti i Padri della Chiesa e i Dottori scolastici come s. Tommaso, s. Alberto Magno, s. Bonaventura, così come la millenaria Tradizione della Chiesa leggono Es 3, 14 in senso metafisico. La Tradizione esegetica cattolica ci dice che in Es. 3, 14 Dio si è rivelato come l'Essere per sé sussistente, l'Ipsum esse per se subsistens di cui parla s. Tommaso d'Aquino.

Siccome la Scrittura è interpretata dalla Tradizione e il consenso unanime dei Padri è garanzia di verità - nella Professio fidei Tridentina il fedele è chiamato a promettere, circa la Bibbia, che "né mai la riceverò o la interpreterò se non secondo l'unanime consenso dei Padri" - con sicura fede dobbiamo dire che dio si è rivelato a Mosè come l'Essere Eterno per sé sussistente.

"La rivelazione del Nome ineffabile  IO SONO COLUI CHE SONO contiene dunque la verità che Dio solo E'" (CCC, 213). In che senso solo Dio è? Forse che noi e il mondo non siamo, non esistiamo? Certo che esistiamo ma non siamo l'Essere. Solo Dio è l'Essere, "Egli solo è il suo essere ed è da se stesso tutto ciò che è" (CCC, 213). Mentre noi abbiamo l'atto d'essere, essere creaturale che è una partecipazione all'Essere con la E maiuscola. Dio è l'Essere per sé sussistente, ovvero esiste per essenza (aseità divina).

… SCHEMA …

Se Dio è l'Essere non potrà che esistere necessariamente e, dunque, eternamente. E' la verità antica e indubitabile enunciata da Parmenide: "l'Essere è e non può non essere". Verità ripresa e sviluppata nel '900 dal prof. Gustavo Bontadini, grande metafisico della Cattolica di Milano.

Per questo in Dio non si dà né si può dare mutamento: Dio non diviene, Dio è eternamente se stesso!

Per questo Dio è "al di là dello spazio e del tempo" (CCC, 205): al di là dello spazio perché in Dio non si dà materia, Dio non ha un corpo, "Dio non ha corpo ma Dio è purissimo spirito"[10]; al di là del tempo perché Dio è eterno (cfr. Is 40, 28).

Cosa significa eterno? Troppe volte dell'eternità si dà una descrizione buona forse per i bambini ma non certo adeguata. L'eternità sarebbe un tempo infinito, miliardi di milioni di secoli. Dio avrebbe di che annoiarsi! Nulla di più sbagliato, l'eternità è l'assenza di tempo, non un tempo infinito.

Il tempo, secondo l'ottima definizione di Aristotele, è "la misura del moto, del mutamento secondo il prima e il poi" ovvero il tempo non è una entità assoluta, a sé. Il tempo è una misura, è la misura del mutare secondo il criterio della successione, del prima e del poi.

In Dio non c'è né un prima né un poi semplicemente perché non c'è mutamento!

La formula al presente adottata dai Settanta e dalla Vulgata dell'IO SONO COLUI CHE SONO comunica efficacemente l'eternità di Dio, pur nella inevitabile inadeguatezza del linguaggio umano. L'eternità, infatti, è in qualche modo come un presente senza inizio né fine, senza successione, simultaneità assoluta, tota simul, tutto simultaneamente.

Ciò significa, ad es., che dobbiamo considerare un certo modo di parlare di Dio, comune alla Sacra Scrittura e alla espressione ordinaria della fede dove si attribuisce a Dio cambiamento, successione di pensieri e azioni, come un antropomorfismo metaforico utile per noi uomini, per la nostra comprensione del dato rivelato, per la nostra educazione. In verità in Dio, come abbiamo visto, non si dà né tempo né mutamento. In Dio "non c'è variazione né ombra di cambiamento" (Gc 1, 17) perché Dio è "Colui che è da sempre e per sempre" (CCC, 212).

Questa luminosa verità è, purtroppo, caduta in oblio per ignoranza di molti ma anche per una ideologica ostilità al discorso metafisico. Per un certo pensiero tutto deve essere ridotto a divenire, a processo storico.

Non pochi teologi e ancor più biblisti hanno respirato a pieni polmoni una simile ideologia storicistica declinando il "tutto è storia" nell'idea che il contenuto della Rivelazione si identifichi con la narrazione degli eventi della storia biblica. Avremmo così un Dio conosciuto solo come soggetto storico se non, addirittura, ridotto a mero personaggio storico (personaggio della storia, se non di "una" storia). E' completamente oscurato il piano dell'Essere, dell'Eterno! Mentre invece la Chiesa ci insegna che "la rivelazione del Nome divino fatta a Mosè nella teofania del roveto ardente […] si è mostrata come la rivelazione fondamentale per l'Antica e la Nuova Alleanza" (CCC, 204).

Dire che la teofania del roveto ardente è la rivelazione fondamentale persino della Nuova Alleanza significa riconoscere che prima di ogni altra cosa và affermato lo statuto ontologico di Dio: Dio è l'Essere per sé sussistente. Lo stesso mistero di Cristo si radica nel riconoscimento di Dio come l'Essere. Nostro Signore Gesù Cristo è l'Essere per sé sussistente incarnato!

Ad ascoltare o a leggere certi così detti esperti, teologi e biblisti, si ha l'impressione, invece, che sappiano tutto della storia biblica ma non sappiano nulla di Dio "Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra"[11]. E' la conseguenza dell'aver voluto ridurre la teologia a esegesi sostituendo la storia alla metafisica e la narrazione biblica alla dogmatica.

In fondo la stessa storia della Salvezza non è fine ma mezzo, il fine è sempre Dio. La storia è mezzo, l'eternità è il fine! Non è poi molto intelligente, dunque, obliare l'Eterno in nome della storia, fosse pure quella biblica. Sarebbe come guardare il dito che indica e non la luna indicata. Tanto più che la Croce, vertice della storia della Salvezza, manifesta, per parola stessa di Nostro Signore (cfr. Gv 8, 28), Cristo come l'Essere, l'Ego sum qui sum rivelatosi a Mosè, Incarnato nel seno della Vergine Maria e Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato.

Ciò che conta è l'Eterno! E l'Eterno è la Ss.ma Trinità unico Dio nella Sua Deità!

Certo l'Eterno si è rivelato nella storia, non però per consegnare se stesso al divenire, piuttosto per chiamare l'uomo all'eternità.

Ciò che vi è di più simile all'eternità nel tempo è la Tradizione nel suo essere immutabile nonostante il tempo. La Tradizione è una partecipazione dell'eternità nel tempo. Infatti Dio in tutto il Suo rivelarsi richiama sempre il legame con i padri, "Dio è il Dio dei padri" (CCC, 205). Dio non si presenta mai all'uomo come nuovo, come novità, Dio è sempre il Dio antico, il "Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe" (Es 3, 6), il Dio di Adamo e di Noè, il Dio di Mosè e dei profeti, il Dio di una Tradizione antica.

L'Eternità di Dio, la Sua immutabilità si manifesta come fedeltà "che è da sempre e per sempre" (CCC, 207). Dio, in quanto Essere Eterno e Immutabile, "resta sempre fedele a se stesso ed alle sue promesse" (CCC, 212).

Quando il CCC dice che "Dio è la stessa Verità" (CCC, 215) non si limita a dire che Dio è veritiero, che le Sue parole sono vere (cfr. Sal 119, 160; 2 Sam 7, 28) e "non possono ingannare" (CCC, 215). Non è neppure un titolo d'onore predicato di Dio come omaggio alla Sua Maestà Divina. Dio è la Verità in senso proprio, come Dio è l'Essere per sé sussistente, così è la Verità per sé sussistente.

Noi lo sappiamo per Divina Rivelazione, NSGC dice di sé: "Io sono la Verità" (Gv 14, 6). La Seconda Persona della Ss.ma Trinità ha per appropriazione il nome di Verità. Verità essendo l'intera Trinità unico Dio e tutte e tre le Persone Divine.

La stessa ragione metafisica ce lo dice essendo il verum un trascendentale, dunque inseparabile dall'essere; se Dio è l'Essere Supremo sarà anche la Somma Verità.

Dobbiamo però fare un po' di chiarezza circa il significato delle parole essendo tutt'altro che scontato. S. Tommaso e tutta la Scolastica definiscono la verità come adaequatio rei et intellectus. E' il principio cardine del realismo: la verità è la conformità dell'intelletto che conosce e della cosa che è conosciuta.

Nelle intelligenze create si dà la verità quando il concetto è adeguato, corrisponde alla realtà che è oggetto dell'atto conoscitivo (adaequatio intellectus ad rem). E' l'intelletto che si deve adeguare alla realtà oggettiva e l'intelletto sarà nel vero solo nel caso si dia tale adeguazione!

Ma in Dio? In Dio, data la Sua semplicità assoluta[12], ci insegnano i grandi maestri della Scolastica, non si dà distinzione reale tra soggetto e atto. Dio è il Suo stesso agire, Dio è Atto puro! Dunque Dio conosce Dio con un atto conoscitivo che è Dio stesso. Soggetto conoscente, atto del conoscere e oggetto conosciuto sono semplicemente Dio!

Nella conoscenza che Dio ha di Se stesso, cioè di Dio, si dà perfettissima adeguazione di intelletto conoscente e cosa conosciuta, anzi si dà perfetta identità. E' Dio che conosce, è Dio che è conosciuto, è Dio l'atto del conoscere! Dio, pertanto, è la Verità per sé stessa sussistente.

Rispetto, poi, alla conoscenza che Dio ha delle creature, tale conoscenza si dà come conformità della cosa creata all'Intelletto Divino. Non è Dio che si conforma alle cose ma le cose che si conformano a Dio!

Dio conosce le cose ponendole e mantenendole nell'essere, cioè creandole, per cui sono le cose create ad essere conformate all'Intelletto Divino, non viceversa (adaequatio rei ad intellectum). "La verità di Dio è la sua sapienza che regge tutto l'ordine della creazione e del governo del mondo" (CCC, 216).

 

Dio che è la Verità rispetto alla conoscenza di Sé e del Creato è, perciò, anche il fondamento stesso della verità che noi, con il nostro intelletto umano, possiamo raggiungere conoscendo la Realtà. Infatti le cose che noi possiamo conoscere sono vere in quanto adeguate all'Intelletto Divino che le pensa. Pertanto, come ci insegna Sap 7, 17-21, solo Dio può donare "la vera conoscenza di ogni cosa creata nella sua relazione con Lui" (CCC, 216).

Dal fatto che Dio sia la Verità stessa sussistente segue che "le promesse di Dio si realizzano sempre [che] le sue parole non possono ingannare" (CCC, 215).

Lo sguardo metafisico non toglie nulla alla conoscenza della storia della Salvezza, anzi trova e scruta il fondamento ontologico degli eventi. Agere sequitur esse, l'agire segue l'essere, non viceversa! Dio non è la Verità perché non mente, bensì non mente perché è la Verità. E conoscere Dio come Verità per sé sussistente è contemplare Dio nella sua Deità, nel suo Essere Eterno. Dire che le promesse e le parole di Dio sono veritiere non è che logica deduzione.

Così si deve parlare dell'Amore. Dio è Amore (1Gv 4, 8). Dio non è semplicemente uno che ama, Dio è l'Amore stesso sussistente. Dio non ha amore, Dio è l'Amore. Verità e Amore sono Dio stesso, sono l'Essere Eterno che è Dio.

Dio che "è la pienezza dell'Essere e di ogni perfezione, senza origine e senza fine" (CCC, 213), non solo in ogni sua opera "mostra la sua benevolenza, la sua bontà, la sua grazia, il suo amore" (CCC, 214), ma è la Bontà stessa sussistente, è Bontà Infinita.

Anche in questo caso siamo in presenza di un trascendentale: il bene. En set bonum convertuntur dice s. Tommaso. Come dire che il bene è lo stesso essere considerato sotto l'aspetto dell'appetibilità, come il vero lo era sotto l'aspetto della conoscibilità.

Dio, allora, che è l'Essere per sé sussistente sarà la Bontà stessa per sé sussistente. Dio non è buono, Dio è la Bontà stessa. Dio "è la prima Verità e il Sommo Bene" (b. Giovanni XXIII, Pacem in terris).

Allora Dio, Bontà sussistente, non potrà che amarsi infinitamente essendo l'amore il primo atto della volontà rispetto al bene.

Dio ama se stesso, Dio ama Dio di un amore infinito che è Dio stesso. L'amore che Dio ha per Dio è Dio. Dio dunque è Amore, "l'Essere stesso di Dio è Amore. Mandando, nella pienezza dei tempi, il suo Figlio unigenito e lo Spirito d'Amore, Dio rivela il suo segreto più intimo: è Lui stesso eterno scambio d'amore" (CCC, 221) è l'Amore intratrinitario!

Dobbiamo, anche qui, intenderci sulle parole: non vi è forse parola più abusata, equivoca e inflazionata di amore.

Purtroppo oggi, molto spesso, quando si dice che Dio è amore si intende l'amore come sentimento, è il Cristianesimo melenso e diabetizzante che ci circonda. Idea zuccherosa quanto assurda. In Dio non si danno emozioni, sentimenti, passioni; Dio è Purissimo Spirito, Essere Eterno e Immutabile mentre sentimenti, passioni ed emozioni appartengono alla sfera sensibile, mutevole, corporea, animale dunque appartengono a noi uomini, non a Dio e neppure agli angeli.

In Dio vi è purissima e infallibili volontà. Volontà che vuole il bene. Il Bene Assoluto, la Bontà per sé sussistente è Dio stesso dunque Dio vuole perfettamente se stesso. Dio vuole Dio e null'altro che Dio!

Questa volontà divina di Dio è Dio come Amore. L'Amore per sé sussistente, che è Dio, è la volontà con la quale Dio vuole se stesso.

Ovviamente un tale Amore non è amore di desiderio; Dio non può desiderare nulla essendo l'Essere Perfettissimo. Se desiderasse qualcosa ciò vorrebbe dire che in Dio vi è una mancanza ed allora non sarebbe Dio. "La natura di Dio, infatti, beatissima in sé, non ha bisogno di nulla"[13].

Tale Amore è amore come perfetta beatitudine, è volontà totalmente appagata nel possesso dell'Amato. Dio ama se stesso e perfettamente si possiede. In Dio Amante, Amato e Amore sono Dio stesso nel mistero della Ss.ma Trinità unico Dio.

Bonum est diffusivum suum! Il bene è diffusivo di suo. Infatti Dio, Somma Bontà, "infinitamente perfetto e beato in se stesso, per un disegno di pura bontà, ha liberamente creato l'uomo per renderlo partecipe della sua vita beata" (CCC, 1). Per pura bontà Dio ha creato, per pura bontà Dio conserva e governa l'Universo, per pura bontà Dio si è rivelato, per pura bontà Dio ci ha redenti, "indotto dalla sua sola bontà, ha compiuto tutto ciò che ha voluto"[14].

Dio ama il mondo del suo stesso amore infatti il mondo non è che una partecipazione ad extra dello stesso Essere di Dio.

Dio ama divinamente il mondo, Dio ama divinamente il mondo nell'uomo che del mondo è vertice e sintesi e di Dio è immagine.

"Dio ha tanto amato il mondo da dare il Suo Figlio unigenito" (Gv 3, 16). In Cristo, Uomo-Dio, ci ha destinati ad essere partecipi di quella comunione d'amore che è la vita della Ss.ma Trinità (cfr. CCC, 221), vita divina a noi partecipata per grazia.

In Cristo tutto l'Universo è riconciliato, l'intero Universo è in quell'eterno scambio d'amore che è Dio Trinità.

L'Amore per sé sussistente, che è Dio, ha creato, l'Amore per sé sussistente regge e governa, l'Amore per sé sussistente si è rivelato, l'Amore per sé sussistente ci ha redenti per divinizzarci, per farci partecipi della vita divina. Tutto per atto gratuito d'amore.

Se il sentimentalismo, anche religioso, ha reso la parola amore melensa e banale, noi figli di Santa Romana Chiesa siamo chiamati a risollevare il Nome di Dio rivelatoci da s. Giovanni Apostolo "Deus caritas est" (1Gv 4, 8) al suo originario significato metafisico. Dio Essere Eterno è Eterno Amore, Dio ama eternamente il Bene Infinito che è Dio e questo amore è Dio stesso, è l'Amore per sé sussistente!

Dio, amandosi, ama divinamente il Creato che il Lui vive traendo così a sé ogni cosa!

L'amore divino non è un sentimento ma la fermissima volontà del bene. La vita intratrinitaria è vita d'amore e tutto ciò che Dio opera ad extra (creazione, rivelazione, incarnazione, redenzione, santificazione) è opera gratuita di pura bontà.

Il Dio Creatore e Reggitore dell'Universo è l'Eterno Amore rivelatoci dall'apostolo Giovanni. Idea poeticamente espressa dall'Alighieri con l'ultimo verso del Paradiso: Dio è "l'Amor che move il sole e l'atre stelle" (Pd XXXIII, 145).

Il Dio Amore di Giovanni è il Motore Immobile di Aristotele, si rivelano lo stesso unico Dio in quella dizione poetica del dogma che è la Commedia e la cantica del Paradiso in particolare. Le ragioni cosmologico-metafisiche si ritrovano comprese e trascese nella Divina Rivelazione.

L'Eterno si è rivelato, ne conosciamo il Nome: "Ego sum qui sum" (es 3, 14), "Ego sum Veritas" (Gv 14, 6), "Deus caritas est" (1Gv 4, 8). Essere, Verità, Amore! E' Dio, è la Ss.ma Trinità unico Dio!

SAMUELE dott. CECOTTI

 

 


 

[1] b. Giovanni Paolo II, Cost. Ap. Fidei Depositum, 3.

[2] s. Tommaso d'Aquino, S. Th., II-II, 1, 2, ad 2.

[3] Ivi, I, 1, 3, ad 2.

[4] s. Pio X, Catechismo Maggiore, 5.

[5] s. Alberto Magno, In Epistolas Dionysii Areop., VIII, 2.

[6] s. Pio V, Catechismo Romano, 1, 2, 2.

[7] Ibidem.

[8] Tertulliano, Adversus Marcionem, 1, 3.

[9] s. Pio V, Catechismo Romano, 18.

[10] s. Pio X, Catechismo Minimo, 8.

[11] s. Pio X, Catechismo Minimo, 4.

[12] Dio è "sostanza spirituale unica e singolare assolutamente semplice e immutabile" (Concilio Vaticano I, Cost. Dog. Dei Filius).

[13] s. Pio V, Catechismo Romano, 25.

[14] Ibidem.