Meditazione per l'Adorazione del 31 Dicembre 2018

Tra poche ore il 2018 se ne andrà, e nessuno lo potrà trattenere. Tra poche ore un nuovo anno busserà alla porta della nostra esistenza, e non si potrà non aprirgli. Il tempo non lo ferma nessuno.

E non risparmia nessuno: incide implacabilmente, sul volto, sulle membra, sull'anima i segni del suo passaggio. Non c'è ritrovato farmaceutico, non c'è artificio estetico che valga a opporsi con qualche plausibilità a questa invincibile legge di natura; non c'è mirabolante promessa di ringiovanimento che possa seriamente essere mantenuta.

Sono pensieri un po' convenzionali, un po' malinconici, ma in ogni caso incontestabili; pensieri quasi obbligatori in questo giorno di San Silvestro, almeno per noi che abbiamo già fatto esperienza di molti cambi di data. Forse non sono i pensieri dei giovani; ma anche per loro è solo questione di attendere: dalla condizione giovanile si guarisce anche troppo in fretta.
Comunque, che il tempo passi è uno dei pochi convincimenti sui quali si è tutti d'accordo: semplici e acculturati, credenti e non credenti, santi e peccatori.
Ma da questa persuasione comune possono poi svilupparsi due concezioni divaricate sul modo di impiegare al meglio lo spazio provvisorio e fuggevole che ci viene donato.

Una mentalità molto diffusa argomenta pressappoco così: se il tempo è breve e non torna più indietro, allora cerchiamo di godercelo finché ci è dato, spremendo (per così dire) da ogni ora la stilla di gusto e di appagamento che essa è in grado di offrirci: "Chi vuol essere lieto sia: del doman non c'è certezza", cantava già Lorenzo il Magnifico in versi che sembrano spensierati e sono invece pungenti.
È un atteggiamento mentale che è presente in ogni epoca e in ogni ambiente. Il profeta Isaia lo registrava già tra i suoi contemporanei che dicevano: "Mangiamo e beviamo, perché domani moriamo" (cf Is 22,13).

Tale filosofia del godimento senza attese e senza futuro è esposta con singolare efficacia dal libro della Sapienza:
"Dicono fra loro sragionando...
"La nostra esistenza è il passare di un'ombra
e non c'è ritorno alla nostra morte,
poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro.
Su godiamoci i beni presenti,
facciamo uso delle creature
con ardore giovanile!
Inebriamoci di vino squisito e di profumi,
non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera,
coroniamoci di boccioli di rose
prima che avvizziscano;
non ci sia prato che la nostra voluttà non percorra" (Sap 2, 1.5.9).

Ma c'è, in opposizione a questa, un'altra e ben diversa concezione. È quella espressa da san Paolo quando parla di "redenzione del tempo" (cf Ef 5,16).
Il tempo cioè va "riscattato". Il tempo va riscattato perché i nostri giorni, presi per se stessi, sono assediati da una sottile e invincibile disperazione. Il tempo va riscattato dall'oppressione della sua intrinseca vanità con la sostanziosa verità di Dio, il quale ci dà la certezza che tutto ciò che noi compiamo nel tempo, nel bene e nel male, si iscrive indelebilmente nell'eternità e determina il nostro destino definitivo. Il tempo va riscattato con il vigore della fede, che con la sua serenità riesce a liberarci dalla impalpabile ma sempre inquietante tristezza, immanente in ogni manifestazione "pagana", antica o nuova, contrariamente a ciò che può sembrare e generalmente si crede.

Ma è un traguardo concretamente possibile per noi questa "redenzione del tempo"?
Sì, perché radicalmente quel traguardo è già stato conseguito con l'ingresso del Figlio di Dio, consostanziale al Padre, nella precaria vicenda umana. Come disse San Giovanni Paolo II, con l'incarnazione del Verbo "l'Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento" (Fides et ratio 12).

Il Signore Gesù è diventato dunque il senso e la pienezza del nostro esistere, redimendo così i nostri giorni dalla loro connaturata vuotezza. Egli colma di sé non solo tutta la storia dell'umanità e l'intero universo, ma anche la storia e la vita di ciascuno di noi.

Nella folla delle creature effimere e degli accadimenti fugaci, che ci illudono e ci deludono, lui è la "roccia" che resta salda sotto ogni mobilità e ogni fatale logoramento.

Perciò stasera ci raduniamo davanti a lui, che è realtà vera e palpitante sul nostro altare, sicuri che egli non ci abbandona senza difesa alle nostre ansie e alle nostre perplessità. È lui, nella generale vanità, la sola presenza certa e salvifica.
Le varie religioni possono anche dare a chi non è stato ancora raggiunto dalla piena verità qualche luce baluginante, qualche provvidenziale anelito all'eterno, qualche sostegno spirituale; ed è una grande, ma iniziale misericordia. Cristo invece è la salvezza realizzata, l'avvenimento unico e imparagonabile. In lui si è avverata la profezia antica (e di ciò i primi cristiani se ne sono subito resi conto):

"Ecco io pongo in Sion
una pietra angolare, scelta, preziosa
e chi crede in essa non resterà confuso"(cf 1 Pt 2,6).

Molti sono i beni che abbiamo ricevuto dall'Autore di "ogni buon regalo e di ogni dono perfetto" (cf Gc 1,17). Ed è giusto riconoscerli tutti stasera con il canto del nostro "Te Deum". Ma soprattutto è bello e doveroso che abbiamo a rendere grazie per la fortuna della nostra appartenenza, nella sua Chiesa, al "Re dei re e Signore dei signori" (cf Ap 19,16), all'unico che ci scampa da ogni smarrimento e da ogni tentazione di sfiducia. Come sta scritto (e come non dobbiamo stancarci di ripetere): "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possano essere salvati" (At 4,12).