Convertirsi e recare frutti

Nelle Scritture ebraiche prima e in quelle cristiane poi, il monito alla conversione è presente in vari modi. I profeti del Primo Testamento avevano costantemente sollecitato gli uomini a convertirsi, per allontanare la minaccia dei castighi di Dio e avevano interpretato gli avvenimenti dolorosi, le guerre, i disastri, la fame come la punizione del Signore. È precisamente qui, in questo contesto interpretativo, che si trova Gesù nel vangelo che commentiamo. Alcune persone, infatti, si recano da lui riferendogli di quei galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Il massimo della profanazione! Che cosa si aspettano da Gesù? Che egli condanni quegli uomini o che condanni il gesto di Pilato? Forse entrambe le cose…
L’abilità e la novità dell’insegnamento di Gesù risiedono invece nell’offerta di un’altra prospettiva. Quale?
Gesù ci insegna, in prima istanza, a rivolgere lo sguardo del giudizio su noi stessi; nella sua risposta leggiamo l’invito ad interrompere il gioco deresponsabilizzante dello stornare da sé l’attenzione per rivolgerla al prossimo, all’altro che diventa capro espiatorio di una situazione a cui è difficile dare risposte.
Tu sei il compito – sembra dirci Gesù - tu l’enigma da risolvere nella vita! E questo non perché la questione degli altri non meriti attenzione. Al contrario. Tu sei il compito perché solo a partire da un chiarimento di te stesso potrai essere luce, compagnia, confronto e testimonianza per l’altro, per ogni altro! Altrimenti continuerai a proiettare sull’altro te stesso e le tue paure, le tue angosce; continuerai ad essere sensibile alla pura dietrologia, alla logica delle trame occulte, alla cultura del sospetto che non è quella dell’amore.
Il passaggio del male e, in ultima analisi, della morte tocca ciascuno, ma c’è una conversione che cambia di segno la morte, che ci fa approdare all’amore e alla resurrezione se, nella vita, avremo accolto la possibilità di essere trasfigurati, trasformati. Una possibilità che ci è portata dalle parole e dall’esempio di Cristo. Tu sei il compito!
Prosegue il nostro vangelo: «Diceva anche questa parabola: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?” Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
La parabola è trasparente. Il Padre e il Figlio si prendono cura dell’umanità e non si attendono altro che essa risponda al loro amore. Tale risposta corrisponde alla realizzazione dell’uomo, come per il fico produrre i suoi frutti. Ma come il fico è sterile, allo stesso modo l’uomo non si decide a fare frutti di conversione.
Per sé, con la venuta di Gesù, il tempo dell’attesa sarebbe finito e il giudizio compiuto. Ma Dio, con la mediazione del Figlio, accorda all’uomo “ancora un anno” e prodiga la sua ultima ed estrema cura perché fruttifichi e non debba essere tagliato. Dio non gode della rovina ma della conversione.
Ma soffermiamoci un poco sulla risposta del vignaiolo, su questa figura identificabile con Gesù; che cosa propone di fare al padrone della vigna che è Dio Padre nei confronti di questo fico improduttivo che è emblema di un Israele ribelle? Sappiamo che il fico è l’albero domestico della terra promessa. Per il suo frutto dolce, che inizia e chiude la stagione dei frutti, nella letteratura rabbinica simboleggia la Legge. Dovrebbe crescere e fruttificare bene nella vigna, che è Israele. Invece, ecco che il fico non produce più, la Legge in Israele non opera più. Sono parole audaci ed estremamente provocatorie quelle di Gesù. È come se la Legge si fosse inaridita, probabilmente a causa di una sua interpretazione legalistica e dunque sterile.
Cosa suggerisce, dicevamo, il vignaiolo? Nulla, ma si impegna in prima persona, non delega altri e non concede semplicemente un anno di prova. Si pone come compito, come dicevamo prima, si responsabilizza. Come farà Gesù, egli si prende a cuore, si prende cura: “lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”.
Gesù è il vignaiolo che ci nutre con la sua parola, risveglia, con la sua compassione e il suo sguardo amorevole, le parti inaridite della nostra vita per trascuratezza o per le condizioni sfavorevoli in cui siamo incappati! Sa dissodare i nostri terreni pietrosi e poco ospitali e ci rigenera a una vita nuova e veramente fruttuosa e feconda! Perché è certo, soggettivamente siamo tutti fragili ma la Parola di Gesù sa far tesoro delle nostre fragilità, persino del nostro peccato per rinnovarci interamente.
Ecco allora che emerge un possibile nesso tra le due parti del racconto evangelico, la prima con l’esortazione alla conversione per non morire e la seconda con la parabola del fico a cui viene fatto il dono di grazia di un anno per dare frutti. Il nesso è questo: la conversione è necessaria affinché portiamo frutto, affinché ci lasciamo trasformare dalla grazia, per essere frutti di grazia!
E come in natura il processo di impollinazione favorisce il moltiplicarsi dei frutti, analogamente, le leggi dello Spirito vogliono che esporsi alla grazia sia una dinamica contagiante, diffusiva, elevante, che fa crescere in sapienza. Così, la dinamica amorosa del vangelo può propagarsi e diventare frutto concreto senza che, in modo maldestro e forzato tentiamo di convertire gli altri. Proviamo invece a convertire noi stessi e chiediamo al Signore di saper inaugurare percorsi di condivisione amorevole per la crescita e il progresso di ogni cammino in umanità.